La premura del vasaio
Ovvero la paura della debolezza e della fragilità.
Ci sono episodi di censura. Una, gravissima, è all’informazione, il bavaglio alla verità. E dovremmo indignarci, sollevarci in stagioni come questa in cui siamo a rischio. A rischio di bavaglio. Ma non è l’unica censura. Mi capita a volte di soffermarmi a pensare ad altre forme di censura dettate dalla paura. Forme più silenziose, ma non meno invasive. Tra queste la paura della debolezza, lo scandalo della fragilità.
Quella che oggi viviamo è una stagione che sembra segnalarsi per il mito ubriacante dell’efficienza e della qualità: se sei al massimo delle prestazioni, se sei al massimo dell’eccellenza, conti; se non lo sei, non conti. È una visione della vita oggi ampiamente esibita, celebrata ossessivamente dai media: la vita deve essere bella, perfetta, intelligente, ricca di successo, la vita conta se è così, se appare.
Conseguenza ineludibile di questa visione della vita, sotto gli occhi di tutti, è la riproduzione, inarrestabile, a getto continuo, parossistica, di maschere, a nascondimento delle nudità. È fiera, e non chiude. Di maschere e di mascheramenti.
Le maschere del carnevale riempiono di allegria le strade della città, chi le porta sa che sono di un giorno; non ha volontà di inganno, ma solo scommessa di allegria. Chi porta maschere di vanità e di ipocrisia, lo sappia o no, le porta a inganno, di se stesso e degli altri. Tentativo ingenuo o disperato di nascondimento. Purché non appaiano, quasi disonore e cedimento, fragilità e debolezza. Paura e censura folle del limite che per natura – o forse per bellezza? – ci segna.
Impoverimento
Forse è ora che resistiamo a un impoverimento della vita. Quasi che la vita fosse riducibile – dissacrante riduzione – a quella che urla immagini di sé, che maschera gli anni cancellando le rughe, che esibisce superiorità e potenza. Forse che è vita quella che ogni giorno, quasi pane quotidiano, tiene cattedra, cattedra di seduzione, dagli sceneggiati televisivi? Osservi con occhi di disincanto quelle case, scintillanti di lusso e di feste, di compagnie d’alto bordo e di pifferai del sultano e ti chiedi dove sia “il cuore pensante”. Ringrazia il Vangelo, ringrazia la sapienza degli umani se ti hanno plasmato occhi a sorprenderne la vacuità, la povertà, l’assenza di sentimenti e di umanità vera. Fa opera di detronizzazione dentro di te. Deponi le immagini prepotenti dai troni che abilmente, fraudolentemente i menestrelli del nulla hanno, ad arte e interesse, costruito. E ricorda che l’opera di detronizzazione inizia dentro di te. Nega loro la tua anima. Negala sdegnosamente.
E ama la vita nella sua interezza, ama la vita come succede, con le luci e con le ombre, con i ritmi con cui accade. Non snaturarla, ha una sua lentezza: se la neghi perdi il colore, perdi il sapore, il colore e il sapore della vita vera, quella autentica. Fuggi l’inganno dell’illimitato, che ti fa stare in quello che succede senza esserci, perché i tuoi occhi sognano altro. Sono già altrove. E non sono alla pagina della vita che stai leggendo, al volto che stai incontrando, all’emozione che ti sta sfiorando.
Il Dio pastore
Forse anche questo ci insegna l’incarnazione di un Dio. Che ha abitato il frammento, ha dimorato la nostra povertà e debolezza. Lui che quando camminò per le nostre strade fece una cosa dopo l’altra, e mai due insieme, lui che stava nelle misure degli umani con rispetto per le loro lentezze, con sguardo di tenera compassione per la debolezza e la fragilità che incrociava. Un incrocio cui negava fretta di sorpasso: si fermava, si chinava e si rialzava. Lui, invece, volto ardente e passione di profeta, a deporre dal suo cuore e dai nostri occhi le maschere prepotenti, quelle degli uomini della religione, monumenti senz’anima, assertori a parole di una perfezione devastante che ignora il carico a peso sulle spalle della gente.
Lui, icona sulla terra, trasparente e immensa del Dio pastore, come l’avevano disegnato agli occhi del popolo i profeti, un Dio pastore che misura il passo su chi fa più fatica, sulla pecora malata, stanca, incinta. Come leggiamo nel rotolo del profeta Ezechia, là dove Dio, parlando di sé, dice: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16).
Lui che rivendicò per se stesso non la figura del messia trionfante, ma quella di un messia curvo sulla terra, che mai e poi mai si azzarderebbe a fare scempio di una vita in frammenti. Dal Padre apprese, in bottega del cielo, il mestiere del vasaio: “Ora se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto” (Ger 18, 4-5). Nemmeno nel più lontano gli apparteneva la politica dello scarto. Lui appassionato di canne incrinate e di lucignoli fumiganti, lo sorprendevi intento a fasciare delicatamente le une e a dare olio pazientemente agli altri.
Lui che, quando si trattava di fare parabole, aveva premura di inventarle con le cose piccole della vita, nell’intento segreto di farle guardare a noi, che troppo spesso le oltrepassiamo con occhi pallidi e indifferenti. Vi confesso che di tanto in tanto mi ritrovo a invocare per me quei suoi occhi e quelle sue mani.
Vorrei avere occhi e mani, io che a volte oltrepasso ciò che sconta fragilità e debolezza.
Vorrei avere i suoi occhi, le sue mani. Che accarezzavano, si incantavano, restituivano valore alla piccolezza, alla debolezza, alla fragilità delle cose. E mi bussa alle labbra la preghiera di Sr. Marie-Pierre di Chambrand
Rendimi fedele, Signore,
a questo filo di speranza
e a questo minimo di luce
sufficienti per cercare.
Rendimi fedele, Signore,
a questo vino del tuo calice
e a questo pane quotidiano
sufficienti per campare.
Rendimi fedele, Signore,
a questo briciolo di allegria
e a questo assaggio di felicità
sufficienti per cantare.
Rendimi fedele, Signore,
al tuo Nome sulle labbra,
a questo grido della fede
sufficienti per vegliare.
Rendimi fedele, Signore,
all’accoglienza del tuo Soffio,
a questo dono senza ritorno,
sufficienti per amare.
Dunque, prova a incantarti per le piccole cose. Ma è poi vero che sono piccole? Prova a incantarti per le cose di ogni giorno. Apri la finestra: perditi a osservare la riga blu del cielo fra i tetti della città o la striscia silenziosa della luna, il viso di un bambino o l’arco dolce che fanno le rughe sulla fronte di un anziano, la dolcezza di un fiore, le mani strette dei ragazzi innamorati, il vociare irrefrenabile dei bimbi in gioco nel cortile accanto. Succede che andiamo a occhi chiusi.
Apri la finestra. Anch’io mi riprometto di aprirla, ma non sempre me ne ricordo, di aprirla ogni giorno là dove la vita mi chiama. Ci sono valori, come avverte Erri De Luca in una sua poesia, che non abbiamo ancora conosciuto. Molti che io non ho conosciuto.
Considero valore
ogni forma di vita,
la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore
il regno minerale,
l’assemblea delle stelle.
Considero valore
il vino finché dura il pasto,
un sorriso involontario,
la stanchezza
di chi non si è risparmiato,
due vecchi che si amano.
Considero valore
quello che domani
non varrà più niente
e quello che oggi
vale ancora poco.
Considero valore
tutte le ferite.
Considero valore
risparmiare acqua,
riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo,
accorrere a un grido,
chiedere permesso
prima di sedersi,
provare gratitudine
senza ricordare di che.
Considero valore
sapere in una stanza
dov’è il nord,
qual è il nome del vento
che sta asciugando il bucato.
Considero valore
il viaggio del vagabondo,
la clausura della monaca,
la pazienza del condannato,
qualunque colpa sia.
Considero valore
l’uso del verbo amare
e l’ipotesi che esista
un creatore.
Molti di questi valori
non ho conosciuto.
(da “Opere sull’acqua e altre poesie”, Einaudi, Torino, 2002).