Raimon Panikkar
L’ultimo biglietto che m’arrivò dalla sua casa-eremo di Tavertet, abbarbicata sui Pirenei a pochi chilometri da Barcellona, finiva così: “Possiamo ancora cantare, perché siamo mortali”. Il resto feci un’immensa fatica a decifrarlo, tirato com’era da una striscia calligrafica nera, segno di una mano fragile, incapace oramai di reggere la scrittura, che era la sua arte.
Raimon Panikkar non era una linea, era un cerchio. E forse non era nemmeno, ma è perché quell’evento ultimo è nella sua visione semplicemente un trapasso, un ritorno a quella sorgente di fuoco che è la vita. Non amava molto parlare né di futuro né di passato. Pensava al presente come a un tempo che riassorbe in sé il passato e il futuro. Aveva coniato anche un termine: tempiternità. Essere, diceva, significa stare “oltre le alienazioni, oltre le infiltrazioni tecnologiche che cercano in tutti i modi di distrarci dalle cose ultime, dalle cose profonde”. Vivere la nudità ontologica era per lui la forma più vera di vivere il Vangelo. Come Francesco e Chiara, simboli di una purezza esistenziale che più di ogni altra si è avvicinata allo spirito “contestatore” di Gesù: “Erano ignudi, non si aggrappavano a nulla. E proprio per questo erano i volti di Cristo, erano il Vangelo sine glossa”. Essere ignudi per Panikkar aveva soprattutto una valenza ontologica, era il distacco dalle cose materiali, dai gadgets tecnologici che intralciano la via, il cammino alla ricerca di se stessi e alla scoperta dell’altro, che egli considerava non un altro da sè, ma un prolungamento dell’io.
Mi verrebbe la tentazione di definirlo un “profeta”. Lui mi ammonirebbe: “Io sto nel presente, non anticipo il futuro”. Eppure mi pare sempre più chiaro che Panikkar ci superi. La sua vita è stata il frutto di infinite contaminazioni. Figlio di madre catalana cattolica e padre indiano induista, il suo sangue era una miscela di culture e religioni. La sua formazione correva da un luogo all’altro dell’Europa, dell’Asia, del Medioriente, dell’Africa, dell’America Latina, del nord America dove ha chiuso la sua attività accademica fra le università di Harvard e Santa Barbara. Dicono che conoscesse una ventina di lingue. Eppure, nonostante questa libertà d’apprendimento, la curiosità del mondo, egli si concedeva anche la libertà di conoscere le culture dal di dentro, dagli interstizi della vita feriale.
L’altro per lui non era un oggetto di investigazione teorica, ma un universo da scoprire. “Per conoscere un’altra religione – diceva – ti devi convertire”. E lo diceva concretamente: “Sono nato cristiano, mi sono scoperto indù e torno buddhista, senza avere mai perso di vista la mia matrice cristiana”.
Convertirsi all’islam non vuol dire tollerare l’islam, ma vivere quella religione dall’interno, scoprirne i tesori, collocarsi su quell’orizzonte mistico e simbolico. E così per l’induismo, per il buddhismo, così per le religioni animiste dell’Africa. Non enunciava tanto un dialogo interreligioso, ma intra-religioso.
Laico e libero
Panikkar evitava le polemiche frontali con le autorità ecclesiastiche. È stato il sacerdote più libero che abbia mai conosciuto. Ha potuto dire e fare cose che ad altri sono costate carissime. Non capiva il celibato del prete, ma non ha mai fatto una campagna contro. Si è semplicemente sposato con il benestare delle autorità, perché quell’evento di amore avrebbe rafforzato il suo sentimento religioso, il suo cuore cristiano.
Fare l’esperienza di una sua messa era un evento straordinario. Vi entrava tutta la creazione. Sembrava di tornare alle origini quando la comunità era la chiesa e la chiesa era la comunità. E il ministro del culto (il sacerdote Raimon Panikkar) stava nel mezzo, quasi sempre seduto all’indiana con le gambe incrociate. Era un evento cosmico, simbolico, in cui il fuoco, il sangue, la terra diventavano elementi vivi, quasi a rinnovare la creazione. E le piante e gli animali vi partecipavano come figli della comunità di credenti.
Le riflessioni “teologiche” avevano l’audacia della pratica religiosa vissuta, non assunta unicamente per via razionale. La Trinità era per lui il simbolo odierno della terra ferita, dell’uomo annichilito, del Dio lottizzato. Perché l’esito di quell’incrocio di persone era per lui la forma per esprimere il Tutto, ossia la relazione fra le tre dimensioni del reale, quella umana, quella cosmica, quella divina. Isolare Dio significa tagliare quel filo che lo lega all’Uomo e uccidere l’Uomo significa ferire Dio e distruggere la Terra vuol dire deturpare il divino. Perché Dio è in ogni cosa. Egli si fa conoscere nel suo essere plurale. Questa relazione fra le tre dimensioni costitutive del reale, Panikkar l’ha definita con un neologismo: cosmoteandrismo.
Panikkar andava oltre il monismo. Ma non sopportava nemmeno il multiculturalismo. Diceva che la realtà è plurale e che la verità tout court non esiste. La verità esiste in quanto radicata in un universo particolare: “Il monoculturalismo, ossia la credenza che una cultura abbia, in linea di massima e in linea di principio, la soluzione ai problemi del mondo, è molto pericoloso. Credo che il problema che dovremmo porci sia diametralmente opposto: come renderci conto che nessuna cultura è isolata e che nessuna religione può cavarsela da sola?”.
Nessuno come Panikkar è riuscito a creare un pensiero organico e originale sul dialogo fra le religioni. Qualcuno lo ha criticato di scivolare nel sincretismo o nel panteismo. In realtà difendeva il diritto delle religioni di poter esprimere le proprie verità e per questo amava dire “inter-in-dipendenza”, con l’intento di spiegare la connessione fra le tradizioni religiose come dialogo di verità autonome le une dall’altre ma aperte all’incontro. Quando vedeva la Chiesa chiudersi a riccio per paura, sbottava: “Chi ha paura di perdere la propria fede la perderà”.
Panikkar ha vissuto la sua libertà nella fedeltà. Quando morì padre Ernesto Balducci scrisse una lettera commovente. Non gli risparmiava alcune critiche rispetto alla teoria dell’uomo planetario che egli considerava “un’astrazione”: “L’uomo – diceva Panikkar – si da solo in una cultura particolare”. Al termine della lettera salutava l’amico con queste parole: “Il cuore piange perché vive”.
Caro amico e maestro. Ora che sei tornato alla sorgente lasciando un vuoto nel mondo, vorrei scriverti l’ultimo biglietto come eravamo soliti fare tu dalla tua casa-eremo a Tavertet, io dal mio ufficio del Centro per la Pace a Bolzano. E dirti solo questo: “Il cuore piange perché vive”.