Resistere in divisa
Un incubo da cui si può uscire.
La resistenza dei GI (General Intake, acronimo che le forze armate USA utilizzano per i soldati semplici arruolati, ndr) nasce dalla necessità di rendersi conto che all’interno di ogni divisa c’è un essere umano, con una propria coscienza e con i suoi limiti. Ogni persona che indossa una divisa si trova davanti a una scelta difficile. Può accettare quel percorso di vita, ossia obbedire agli ordini incluso quello di uccidere senza opporre alcuna resistenza, attendere nella speranza di godere in seguito dei benefici del periodo di servizio militare, magari aspirando a salire rapidamente i gradini della carriera militare e di beneficiarne economicamente un posto di prestigio, oppure, più umilmente sperare di ritornare da una missione con la mente e il corpo ancora illesi.
Altrimenti, si può scegliere di rifiutarsi di obbedire agli ordini spesso immorali imposti, tra cui quello di uccidere; si può scegliere di buttare via una carriera promettente se quest’ultima implica di sopprimere in modo disumano un altro essere umano. Si può scegliere il carcere invece dell’obbedienza indiscussa e si può lasciare che la propria umanità superi il condizionamento militare.
Militari per necessità
Non dovrebbe sorprendere che la stragrande maggioranza opti per la prima scelta e si comporti come da “manuale del bravo soldato”. Molti si arruolano nelle forze armate statunitensi non per amore del nazionalismo, o per patriottismo, ma perché provengono da situazioni disperate senza altre alternative. Le forze armate USA offrono alla nuova recluta l’alloggio e gli alimenti, e una busta paga che al principio ammonta a circa $1.400 al mese (anche di più, se sei sposato o hai una famiglia). La gente che ho conosciuto nelle forze armate proveniva spessissimo da zone molto povere di campagna, come Arkansas e Oklahoma, e da alcune zone metropolitane USA depresse economicamente come Detroit, Newark, St. Louis e Cleveland. Alcune persone, che ho conosciuto durante il periodo di allenamento di base, stavano provando gli effetti di una crisi di astinenza quando sono arrivati. La gente che si trovava in condizioni così disperate si sarebbe certamente arruolata appena sentiva che poteva ricevere un bonus al momento del reclutamento, assieme a una busta paga regolare e un letto caldo in cui dormire. Per persone come loro, i benefici in più, come i finanziamenti per frequentare l’università (che costa molto negli Stati Uniti) o i prestiti per la casa a basso tasso d’interesse, erano soltanto la ciliegia sulla torta, ma per gente di altra provenienza sociale sono, invece, la chiave di svolta della propria vita e ci vuol poco per attirarli. Perciò l’idea di abbandonare le forze armate suscita la paura di tornare a vivere nelle strade e di buttare via la loro migliore possibilità per un futuro diverso.
Immaginate un diciottenne, appena cacciato di casa dai propri genitori, temporaneamente senzatetto, di fronte a un bonus di reclutamento sventolatogli davanti alla faccia, a condizione che si arruoli nella fanteria. Il “diciottenne senzatetto” freme davanti all’opportunità presentatagli. Nella sua ingenuità, non si rende conto che non ne vedrà un centesimo finché non finirà l’allenamento di base, e che riceverà soltanto la metà di quel bonus perché l’altra parte gli verrà sottratta in tasse, e che, infine, riceverà gli altri dollari soltanto quando avrà completato il suo periodo contrattuale di quattro anni (compresi 2 anni o in Iraq o in Afghanistan, che consentono di trasformare il contratto in 5 anni).
Coloro che, come noi, lavorano con i soldati nel tentativo di riportare la pace e la giustizia ai popoli dell’Iraq e dell’Afghanistan, devono fare appello all’umanità di un soldato, alla capacità di un essere umano di mettere l’interesse di qualcun’altro davanti al proprio. Noi conosciamo i soldati in prima persona, li aiutiamo a uscire dalle forze armate, a trovare lavoro e a riscuotere le loro indennità di servizio, parliamo con loro della missione e dei motivi della guerra, e i soldati che sono già stati in Iraq e in Afghanistan spesso conoscono già e in prima persona le atrocità che la guerra implica intrinsecamente e le condizioni in cui la gente deve sopravvivere. Molti di questi soldati vivono un forte conflitto interno tra il condizionamento che hanno ricevuto dalle forze armate e la parte di sé che afferma che tutto questo modo di fare è sbagliato. Perfino in tempi di pace, alcuni sviluppano una forte intolleranza nei confronti dello sfoggio di comportamento dittatoriale presente all’interno delle forze armate; intolleranza che fa sorgere interrogativi sul ruolo delle forze armate in una democrazia che sia degna di tale nome. Per molte persone, il senso di colpa per azioni compiute in Iraq e in Afghanistan si trasforma in sindrome da stress post-traumatico, un effetto collaterale comune all’applicazione pratica del condizionamento militare. Tra gli altri effetti nocivi delle missioni si possono annoverare gli incubi che vedono protagoniste le persone che i militari stessi hanno ucciso. E, spesso questi incubi accompagnano i soldati per il resto della vita.
Movimenti organizzati
Iraq Veterans Against the War è un’organizzazione composta da personale militare e veterani che dall’11 settembre 2001 prestano servizio nelle forze armate USA. La maggior parte degli aderenti all’organizzazione (ma non tutti) sono stati in missione in Iraq o in Afghanistan o in entrambi i Paesi. Attualmente contiamo circa 1.800 aderenti, tra cui 25 in Europa.
I tre obiettivi della nostra organizzazione sono: ritiro immediato dall’Iraq e dall’Afghanistan, assicurare una cura decente per i veterani che ritornano dalla guerra (più di un terzo dei senzatetto negli USA sono veterani delle forze armate – molti militari si trovano in difficoltà a reintegrarsi nella vita normale al termine del contratto) e risarcire le popolazioni dell’Iraq e dell’Afghanistan in modo da assumersi la responsabilità per il danno causato dalle guerre. Insieme alla Military Counselling Network, in Germania, abbiamo un impatto piccolo ma concreto nel porre fine a quelle guerre. Per i soldati creiamo la coscienza di alternative possibili, dimostriamo che essi possiedono ancora il controllo sulla propria vita, perfino in un ambiente di asservimento apparentemente totale, dimostriamo che la loro resistenza e i tentativi di organizzarsi quando sono in servizio avranno appoggio al di fuori delle mura della base. E, più importante di tutto, aiutiamo alcuni giovani a uscire dalle forze armate, quando arriva il momento di partire per l’Iraq o per l’Afghanistan. Facendo questo, riduciamo la risorsa vitale per le forze armate USA: il personale. Ogni soldato che aiutiamo a uscire dalle forze armate è un soldato in meno in Iraq e in Afghanistan e a volte è anche un veterano in più che può dividere le sue esperienze in Iraq o in Afghanistan con il pubblico, in modo da fornire un quadro veritiero di come si svolge un combattimento quotidiano. Con gli occhi di un soldato.