Mi rifiuto di uccidere

Storia di Joe Glenton, il primo soldato in Europa che ha rifiutato pubblicamente di prestare servizio in Afghanistan.
Rete di uomini Payday

Il Caporale Joe Glenton, di 27 anni, si arruolò nell’esercito professionale britannico nel 2004 e venne inviato in Afghanistan nel 2006. Anche se l’esercito e i politici dichiaravano che le truppe britanniche erano lì per aiutarli, Joe Glenton fu scioccato nel vedere che gli afghani erano contro di loro. Pieno di vergogna e disilluso, si assentò dall’esercito senza permesso nel 2007, costituendosi due anni dopo, e parlò immediatamente contro la guerra. Il 23 luglio 2009 conferì con Malalai Joya, la deputata afghana espulsa dal Parlamento per aver protestato contro la presenza tra i deputati di signori della guerra e criminali. 

Il 30 luglio Joe scrisse una lettera all’allora Primo Ministro Gordon Brown, motivando il suo rifiuto: “Le scrivo da soldato che presta servizio nell’esercito britannico (...). La mia preoccupazione fondamentale è che il coraggio e la tenacia dei miei commilitoni sono diventati uno strumento della politica estera USA (...) La guerra in Afghanistan non riduce il rischio del terrorismo; invece di migliorare la vita degli afghani porta morte e distruzione nel loro Paese. La Gran Bretagna non dovrebbe esser là (...)”.

Il 24 ottobre 2009, contravvenendo a un ordine diretto del suo superiore, Joe e sua moglie Clare guidarono una marcia di 10.000 persone contro la guerra. Alla fine della manifestazione Joe parlò dalla piattaforma dei leoni a Trafalgar Square a Londra, esortando il governo a ritirare le truppe. Il suo discorso venne riportato da stampa e tv nazionali e internazionali. Tornato in caserma, Joe temeva una reazione ostile da parte dei suoi commilitoni e, invece, venne accolto come un eroe.

Mi chiedevo che cosa mi avrebbero tirato dietro, ma la reazione fu incoraggiante. Strette di mano, pacche sulle spalle. Qualcuno disse che dicevo quello che tutti gli altri pensavano. L’ho sentito dire da parecchie persone (...) Molti superiori dissero che mi rispettavano perché rimanevo fedele alle mie convinzioni” (Guardian, 30 ottobre 2009).

Imputato di diserzione e altri capi d’accusa, Joe poteva essere condannato fino a dieci anni di prigione. Dapprima lo misero in carcere per cinque settimane nel novembre 2009, poi, sotto la pressione internazionale crescente, lo rilasciarono su cauzione, a condizione che non parlasse in pubblico contro la guerra. Joe era imbavagliato, ma sua moglie, sua madre Sue e i suoi avvocati continuarono a parlare per suo conto. 

Nel gennaio 2010 uno psichiatra civile gli diagnosticò il disturbo postraumatico da stress (PTSD), una diagnosi che l’esercitò accettò nel febbraio 2010. 

Nello stesso tempo Sue Glenton compì un giro di incontri pubblici in sette città italiane, ampliando la Campagna. Sue venne ricevuta in Senato e la storia di suo figlio apparve in importanti media italiani. 

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La corte marziale venne fissata per il 5 marzo. La Stop the War Coalition picchettò la Corte a Colchester. Rifiutarsi di Uccidere (RtK) incoraggiò organizzazioni di obiettori di coscienza e antimilitaristi a manifestare presso le ambasciate e i consolati britannici il 4-5 marzo: Atene, Filadelfia, Francoforte, Istanbul, Mosca e Roma risposero all’appello. 

Attivisti raccolsero firme a Roma, Cremona e Venezia. In Irlanda la gente chiamò l’ambasciata britannica per protestare. In Polonia il caso di Joe trovò spazio su una radio nazionale. A Londra RtK consegnò una petizione in suo appoggio al Ministero della Difesa (MoD), firmata da oltre 1.200 individui e organizzazioni da 40 Paesi, tra cui il Premio Nobel Dario Fo, Franca Rame, sua moglie e collaboratrice, e il parlamentare europeo Gianni Vattimo. Alla manifestazione di Londra partecipò il Senatore del Partito Radicale Transnazionale Marco Perduca.

Corte marziale

Il 4 marzo improvvisamente l’MoD lasciò cadere la maggior parte dei capi d’accusa, mantenendo soltanto l’assenza senza permesso. Sue Glenton commentò che, dato che Tony Blair doveva apparire davanti all’Inchiesta Chilcott sulla guerra in Iraq quello stesso giorno, l’MoD temeva l’ulteriore pubblicità generata dalla contemporaneità dei due casi. Joe si dichiarò colpevole di assenza senza permesso, venendo condannato a nove mesi, degradato a soldato semplice e incarcerato nella prigione militare di Colchester. 

Anche dopo che i principali capi d’accusa erano stati lasciati cadere, l’assenza senza permesso avrebbe potuto dire due anni di prigione. La condanna più breve rifletté senza dubbio la pressione internazionale su politici e militari e deve essere considerata una vittoria. Nove mesi rimangono, però, una condanna ingiusta e crudele per una persona affetta da PTSD. 

La Campagna internazionale è da allora continuata, con l’organizzazione tedesca Connection e. V. che invitò il pubblico a spedire cartoline in prigione a Joe, per far sapere a lui (e ai suoi carcerieri) che non era stato dimenticato. Ne ricevette a centinaia. 

Le condizioni in prigione sono dure e Sue e Clare devono percorrere più di 300 chilometri per andarlo a trovare. L’esercito gli ha bloccato la paga: Joe prende solo 88p (€1) al giorno per le piccole spese e non può ricevere soldi, cibo, vestiti o sigarette dall’esterno. Può fare solo dieci minuti di telefonate e ricevere due ore di visita alla settimana. Non ha accesso a internet. Può usare la palestra un’ora al giorno. In caserma vige la disciplina militare e Joe deve indossare l’uniforme.

Joe rimane in atteggiamento di sfida ed è stato preso di mira dalle autorità delle prigione. L’8 aprile gli venne detto che lo punivano perché dicevano che aveva insultato un ufficiale. Le autorità della prigione hanno cercato di costringere Joe a dormire con una coperta sporca – una punizione che spesso provoca i pidocchi – e a indossare gli scarponi anche se con un dito rotto. Quando Joe ha rifiutato la punizione della coperta, fu minacciato di isolamento. Ma l’udienza disciplinare lo assolse da tutte le accuse. La pubblicità internazionale ancora una volta ha funzionato. 

I suoi avvocati presentarono appello contro la condanna, considerata troppo dura per uno affetto da PTSD. Il 22 aprile, il giorno dell’appello all’Alta Corte di Londra, 30 donne e uomini con volantini e striscioni hanno dimostrato il loro appoggio per la presa di posizione di Joe. La loro protesta risuonò fin dentro l’edificio del tribunale attraverso una fonte inattesa: mentre Joe entrava nell’aula, un poliziotto disse a voce alta a sua madre e a sua moglie: “Questo ragazzo è il nostro orgoglio”. Ma la condanna venne confermata. 

Dato che si è dichiarato colpevole di assenza senza permesso, la condanna di Joe venne automaticamente ridotta di 1/3, per cui sei mesi di prigione. Ma gli hanno dato la buona condotta e il 12 luglio è uscito. L’esercito gli ha dato anche un congedo amministrativo non punitivo, che non avrà influenza sulla sua vita futura. 

Continuano, intanto, le stragi di civili afghani da parte delle forze della coalizione guidata dagli USA e le proteste aumentano in Afghanistan e nel mondo. 

È importantissimo difendere e appoggiare quelli che, come Joe, si rifiutano coraggiosamente di partecipare a questo bagno di sangue. La storia di Joe Glenton dimostra che vincere si può.

 

Si possono inviare messaggi a Joe Glenton e alla sua famiglia a: defendjoeglenton@gmail.com. 

 

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