Nossignore
Il fenomeno che possiamo largamente definire “dissenso militare”, ossia l’opposizione da parte di militari a determinate guerre in parte o totalmente, oppure un rifiuto della guerra in sé, esiste da secoli in tutte le forze armate del mondo. Per dare alcuni esempi attuali, nel 2010, oltre agli esempi discussi negli articoli qui raccolti, esistono gruppi o movimenti che praticano o appoggiano una forma o l’altra del dissenso militare in Argentina, in Australia, in Canada, nella Corea del Sud, nella Russia e ci sono stati tentativi di crearne uno in Italia.
In Argentina, nei due decenni successivi alla guerra nelle Malvinas, un gruppo di veterani hanno cominciato a lottare contro il muro di silenzio imposto dalla dittatura per pretendere un compenso per i veterani, molti dei quali giovanissimi, erano stati mandati a patire il freddo, la fame e gli incubi successivi in una guerra finalizzata a mantenere i generali al potere.
In Australia, organizzazioni come “Stand Fast”, formata da veterani dell’intervento in Timor Est, si battono per il ritiro delle truppe australiane dall’Afghanistan.
In Canada, reti di simpatizzanti appoggiano le richieste di asilo di soldati USA che rifiutano di partire per l’Iraq e l’Afghanistan come fecero molti all’epoca della guerra in Vietnam. Nella Corea del Sud, gruppi locali appoggiano le centinaia di giovani che pretendono il diritto all’obiezione di coscienza per non essere complici nella guerra fredda tra Nord e Sud. Infine, dai tempi della presenza sovietica in Afghanistan ci sono gruppi di madri che protestano per un compenso per i loro figli e per sapere la verità su quella guerra, e oggi ci sono giovani che pretendono lo status di obiettore di coscienza per non andare a combattere in Cecenia.
L’obiettivo di questa raccolta di articoli è approfondire lo stato attuale di questa forma di protesta, utilizzando contributi di attivisti in quattro Paesi diversi, in modo da valutare l’importanza del dissenso militare per il movimento contemporaneo contro la guerra.
Gli esempi raccolti sono:
* L’organizzazione statunitense Iraq Veterans Against the War e in particolare la sua attività in Europa,
* il rifiuto della guerra che comincia a manifestarsi tra militari inglesi e in particolare l’esempio attualissimo di Joe Glenton, veterano della guerra in Afghanistan,
* la lotta degli obiettori di coscienza in Turchia, dentro e fuori il carcere nonostante la forte repressione dello Stato turco,
* l’ormai pluridecennale lotta dei cosidetti “refusnik” in Israele, un movimento che assume varie forme, di cui qui facciamo parlare un suo sostenitore, aderente al gruppo “Yesh Gvul”, in ebraico “C’è un limite”, composto da militari e i loro sostenitori civili, che rifiutano di far parte dell’occupazione della terra dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Ognuno di questi esempi racconta la lotta di persone che, in condizioni di notevole difficoltà, e sotto pressioni e anche minacce non indifferenti, hanno esaminato la propria coscienza e deciso di opporsi a tutti gli strumenti che l’autorità militare ha a sua disposizione per mantenere la disciplina dei suoi subordinati. Queste persone hanno deciso, nonostante tutte le pressioni, che bisogna ribellarsi se gli ordini sono illegali e/o immorali, anche se tale ribellione comporta il rischio della perdita della fonte di guadagno e il ritrovarsi in povertà, patire l’ostracismo dalla propria famiglia e/o dai propri commilitoni e subire l’incarcerazione e perfino la tortura.
Può sembrare contraddittorio parlare dell’opposizione dei militari alla guerra: sono molte le persone nel movimento per la pace che hanno forti dubbi nei confronti del dissenso militare e chiedono, “perchè arruolarsi nell’esercito se poi una persone decide di opporsi alla stessa istituzione”?
La domanda è comprensibile da un punto di vista “emotivo”, ma c’è più di una risposta importante da contrapporre a una tale obiezione.
PERCHÉ OBIETTANO?
In primo luogo, la gente non impara dagli errori prima di compierli, e tutti noi cresciamo in una società che a ogni pie’ sospinto, oggi più che mai, indica le forze armate come esempio positivo di onore e sacrificio; un messaggio che pesa tra i giovani d’oggi che vivono in tempi sempre più incerti, sia economicamente che politicamente.
In più, la stessa obiezione espressa prima (perchè esprimi il dissenso adesso se prima ti sei arruola?) viene utilizzato come un martello da tutte le autorità militari per schiacciare qualsiasi dubbio espresso da parte dei soldati nei confronti di ordini che devono eseguire. Non c’è bisogno che il movimento della pace si aggiunga al coro di coloro che vogliono che potenziali dissidenti continuino a fare la guerra.
In secondo luogo, come diceva una volta Fabrizio De Andrè, chi ci salverà dalla guerra sarà il soldato che dice “No!”.
In quei pochi casi nel passato in cui un movimento è riuscito ad andare oltre la protesta e imporre il suo rifiuto della guerra, costringendo le classi dirigenti e le autorità militari a smettere di combattere, il dissenso di massa dei militari ha sempre giocato un ruolo decisivo. Si potrebbe pensare alla prima guerra mondiale, alla guerra in Vietnam, e ai molti altri casi meno noti che hanno impedito nuovi conflitti o almeno arginato i loro effetti, come il “Movimento di smobilitazione” alla fine della seconda guerra mondiale. Oggi dobbiamo porci la domanda: quale ruolo può avere il sostegno al “dissenso militare” nella nostra opposizione alla guerra?
Bisogna prima dare uno sguardo alla diversità tra le varie forme di dissenso. A volte si tende a riconoscere soltanto la diserzione, il rifiuto individuale e totale, come forma di dissenso, ma il panorama di opposizione è molto più vasto e limitarsi alla questione della diserzione rischia di tarpare le ali a qualsiasi speranza di nascita reale di rifiuto della guerra. È importante identificare la diserzione come una, ma non l’unica, delle possibili forme del dissenso militare che si esprimono in determinate circostanze, come ad esempio nel caso di soldati che affrontano un’imminente invio al fronte di guerra e che si trovano costretti a ricorrere a una soluzione drastica per evitare quello stesso invio. In Italia abbiamo assistito a diversi casi di tale forma di dissenso, quando nel 2007 da Vicenza la 173esima brigata di risposta rapida stava per partire per la guerra in Afghanistan e cinque soldati hanno deciso di disertare, di cui due, Russell Hoitt e James Circello, hanno deciso successivamente di schierarsi attivamente con il movimento contro la guerra.
Alcune forme di “dissenso militare”, però, sono molto circoscritte. Nel 2003, prima dell’invasione dell’Iraq, il generale Eric Shinseki si è opposto ai piani di guerra del governo Bush, e ha pagato con la perdita della sua “posizione”. L’obiezione di Shinseki, però, consisteva nell’affermare che i soldati nel piano di Bush non sarebbero bastati a domare un’eventuale resistenza all’occupazione USA da parte del popolo iracheno. Shinseki ogni tanto viene citato dai sostenitori del movimento contro la guerra, ma i risultati del suo piano avrebbero appesantito il fardello sulla schiena del popolo iracheno.
In modo simile, il recente scontro tra il generale Stanley McChrystal e Barack Obama riguardo alla strategia per dominare l’Afghanistan non esprimeva nessuna vera opposizione alla guerra, nè da parte del generale e neanche, bisogna sottolineare, da parte di Barack Obama. Il conflitto è nato nel contesto di una situazione in cui le forze armate USA sembrano sempre più impantanate, nonostante i molti cambiamenti di generali al comando e le loro strategie, mentre la popolazione USA esprime un disagio sempre maggiore verso una guerra che sembra in un vicolo cieco. Obama vuole “vincere” la guerra, tanto quanto il suo generale, ma deve anche gestire l’opposizione della popolazione USA all’invio di nuovi soldati.
McChrystal voleva più soldati punto e basta.
Ci sono generali che vanno ben oltre questi limiti, come ad esempio il generale italiano Fabio Mini, che da tempo denuncia l’ipocrisie e le strumentalizzazioni inerenti alla presenza italiana nell’occupazione dell’Afghanistan, e come l’ammiraglio Falco Accame, che da anni si batte per i diritti dei soldati colpiti dagli effetti dell’uranio impoverito utilizzato nella guerra dei Balcani. Assieme a loro ci sono molti altri ufficiali di minore grado come il tenente Ehren Watada il quale ha dichiarato l’illegalità della guerra in Iraq come difesa in una corte marziale che lo vedeva imputato, e ha vinto la causa, o il colonnello Ann Wright, che non solo si è dimessa dalla sua posizione per protesta contro la guerra in Iraq, ma si è, inoltre, dedicata in modo costante all’attività del movimento contro la guerra, un’attività che di recente l’ha portata a salire a bordo della “Freedom Flotilla”, che ha osato sfidare a mani nude la forza militare dello Stato israeliano.
Il dissenso militare non finisce lì, e non si limita agli esempi coraggiosi di pochi individui più noti. Le testimonianze e i racconti che abbiamo raccolto, sono spesso di soldati o di gente semplice che, rifiutando di partecipare alla guerra, rappresentano in forma potenziale migliaia di altri, che nella “normalità della guerra eseguono ordini spesso causa di profondi turbamenti. Sono questi ultimi che fanno girare le marce della macchina militare, quando potrebbero diventare la sabbia che blocca i suoi ingranaggi. È perciò importante dare uno sguardo alle differenti forme che il loro dissenso può assumere, in modo da prevedere e, magari, incoraggiare il suo pieno sviluppo.
VETERANI DELLA GUERRA IN IRAQ
Il nome dell’organizzazione degli Iraq Veterans Against the War ci dice quanto erano importanti i veterani della guerra in Iraq nel cominciare a raccontare una verità ben diversa al pubblico.
La voce di questi veterani porta un’autorevolezza tra ragazzi che altrimenti si arruolerebbero, ben più autorevole che un attivista del movimento per la pace, che non ha mai vissuto la guerra. In Inghilterra è accaduta una cosa simile con le denunce contro la guerra in Iraq da parte dell’ex-ufficiale delle forze speciali inglesi, Ben Griffin, che si è dimesso, e in Argentina, dagli anni Ottanta fino a oggi, le organizzazioni dei veterani della guerra nelle Malvinas, come il CECIM de La Plata, hanno lottato coraggiosamente per dissotterrare una parte importante della storia della dittatura militare, un’esperienza che ancora oggi conta le sue vittime suicide tra veterani che non riescono più a vivere con gli incubi della guerra. Un tasso di suicidi che si replica tra i veterani britannici dello stesso conflitto.
I genitori dei soldati, di cui qui parliamo solo indirettamente tramite il caso dell’inglese Joe Glenton e sua madre Sue, portano con la propria testimonianza tutta l’indignazione per il trattamento dei loro figli. Il loro ruolo è stato fondamentale nella costruzione del dissenso negli Stati Uniti dal 2002 in poi, ben prima dell’invasione dell’Iraq, con la formazione di Military Families Speak Out, e nella Gran Bretagna con Military Families Against the War nel 2004, da parte di Rose Gentle e Reg Keys, che avevano perso i figli in Iraq.
L’obiezione di coscienza ha una lunga e onorevole storia in Italia, dalle varie forme di lotta negli anni Sessanta e Settanta, che l’hanno affermata come diritto istituzionale. Da quando l’esercito italiano è diventato professionale, però, si presta poca attenzione a questa forma di dissenso, pensando spesso ed erroneamente, come spiega Chris Capps-Schubert, che la coscienza scompare quando i soldati si arruolano volontari. Gli eserciti USA e britannici sono composti da volontari, e gli esempi di Joe Glenton, Andre Shepherd e Agustin Aguayo, sono soldati professionisti che rifiutano la guerra. Gli esempi delle lotte portate avanti dagli Iraq Veterans Against the War in Germania, con il sostegno di gruppi come Connection eV e il Military Counseling Network, ci possono dire tanto.
Questi non sono gli unici esempi del sostegno agli obiettori di coscienza. Un breve giro in internet può fornire informazioni e esperienze di tutto il mondo di gruppi di civili che esprimono la loro opposizione alla guerra tramite il sostegno a obiettori di coscienza, dalla Russia alla Corea del Sud, dove migliaia di persone hanno sofferto il carcere anziché far parte dei giochi di guerra. Uno dei contributi qui raccolti del gruppo PayDay nella Gran Bretagna racconta diversi esempi di grande coraggio nel tentativo di affermare il diritto all’obiezione di coscienza in Turchia, nonostante la fortissima repressione da parte delle autorità.
IN AFGHANISTAN
In Afghanistan, l’esercito italiano viene sempre più coinvolto militarmente, come denunciano abilmente il generale Fabio Mini e l’ONG Emergency assieme ai giornalisti del sito Peacereporter, in diretta proporzione alla sempre più chiara impossibilità di arrivare a una presunta “vittoria”. Il fardello delle esperienze di guerra vissute peserà sui militari come pesa già su altri veterani, che hanno patito gli effetti della delusione, dell’orrore, della frustrazione di non poter comunicare la verità della guerra ad amici e familiari. Ad alcuni di loro quel fardello produrrà incubi e lo stesso distacco dalla società che nella Gran Bretagna ha portato centinaia di veterani tra la popolazione dei senzatetto e i carcerati, e negli USA ha fatto si che il tasso di suicidi tra veterani non smetta di aumentare.
Ad alcuni, però, quell’esperienza di vivere in prima persona la guerra, al di là delle strumentalizzazioni propagandistiche e delle ipocrisie che favoriscono un’occupazione senza futuro, li porterà a cercare un modo per denunciare la verità della guerra, per salvare la propria anima. Così l’esistenza degli Iraq Veterans Against the war e altre organizzazioni simili negli USA ha creato le condizioni che hanno incoraggiato veterani della guerra in Iraq come Ethan Cord, testimone oculare della strage di civili uccisi da elicotteri Apache a Baghdad e immortalata dal video ottenuto da “Wikileaks”, a denunciare la guerra in prima persona. Tocca a noi decidere in che modo vogliamo prepararci per una tale eventualità.
Per i primi coraggiosi individui che in Italia decidono di rompere il silenzio, per non lasciarli soli con i loro incubi. Per aiutarli a diventare nuovi portavoce del movimento per la pace.