TESTIMONI

Tu non ucciderai

Prosegue il nostro viaggio alla scoperta di Tolstoj.
Oltre il romanziere, la sua idea nonviolenta e pacifista e le implicazioni sulle scelte personali e politiche.
Fabrizio Truini (Già funzionario Rai )

Gli uomini credono spesse volte che la questione della non-resistenza al male con la violenza sia una questione secondaria” (Tolstoj, Il Regno di Dio è in voi, scritto del 1893, tr. it. Trento 1988, c. 8°, p. 206). Questa, forse, è una delle affermazioni più significative, tra le tante analoghe, che meglio esprime il pensiero di Tolstoj sulla nonviolenza. In questo capitolo egli afferma che la scelta tra violenza e nonviolenza, tra il male e il bene, è primordiale, risale agli inizi dell’umanità; e che Cristo è venuto non solo a ribadirla, ma a insegnare un nuovo concetto di vita. Ecco perché la violenza che porta a uccidere è “irragionevole” – e “la guerra un evento contro ragione e contro natura”, come scrive in un altro passo (Guerra e pace, l. I, p.1; c.1) – e soprattutto anticristiana.

I due motivi – quello della razionalità e quello della fede – sono così intrecciati in Tolstoj da essere inestricabili. Così come sono strettamente uniti i due interrogativi fondamentali ai quali intende rispondere l’intera sua opera: quello sulla guerra e la pace e quello sulla morte e la vita.

Sono le due questioni che quasi ossessivamente lo interpellano fin dall’inizio della sua vita di uomo e di romanziere. Le sue intuizioni si rivelano subito, anche se solo nella maturità e vecchiaia attraverso lo studio e le riflessioni teoriche si chiarificherà che amare la vita in tutte le sue forme allontana e fa superare la morte, e che affermare la pace comporta negare sempre la guerra e la violenza. 

Tracce nonviolente

La legge, che con assoluta certezza garantisce la pace nel mondo e che è racchiusa in due parole – non uccidere –, è nota in tutto il mondo” (articolo incompiuto scritto per la Conferenza della pace di Stoccolma nel luglio 1910 a tre mesi dalla morte, e tratto dall’antologia a cura di A. Cavazza, in Bori, Tolstoj, Fiesole 1991, p.197).

Essi” (i tiranni, i capi dei poteri dominanti, non esclusi giudici e intellettuali) “sapevano che esiste una legge di Dio obbligatoria: Tu non ucciderai, e sapevano che c’è pure un servizio militare obbligatorio, ma non avevano mai pensato che in questo vi fosse una contraddizione” (Regno di Dio.., o. c., p. 318).

Ma già in Guerra e pace, scritto negli anni Sessanta, si possono carpire, e fin dall’inizio del romanzo, affermazioni significative, sia pure in una conversazione che si svolge in un salotto di Mosca tra i due principali personaggi maschili: “…rispose il principe Andrej: ‘Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più’. ‘E sarebbe una cosa magnifica’ disse Pierre” (l. I, p.1, c.5).

E ancora più oltre: “Pierre stava sostenendo che sarebbe venuto un giorno in cui non ci sarebbero state più guerre. Il vecchio principe (padre di Andrej) gli contestava questa tesi, canzonandolo: ‘Fanfaluche da femmine, fanfaluche da femmine’ esclamò” (l. II , p. 2, c.14). 

Ma è proprio la sapienza femminile a suggerire a Tolstoj le intuizioni pacifiste: si ricordi Maria, sorella di Andrej, quando afferma che la guerra avviene “perché l’umanità ha dimenticato le leggi del Signore, che predicava l’amore e il perdono delle offese” (G. e p., l. I, p.1 c.22); o ancora Nataša, quando in chiesa senza convinzione e con molti dubbi prega per l’imperatore e il Sinodo, ma non riusciva proprio a pregare “affinchè i nemici venissero spezzati sotto i piedi” (G. e p., l. III, p.1, c.18).

Non c’è un ‘altro’ Tolstoj, oltre le opere letterarie; come non si può dividere il romanziere dalla sua fede e razionalità.

Rileggendolo si scopre una continuità sorprendente del suo pensiero e della sua religiosità, anche se indubbiamente a livello di riflessione esiste in lui una cesura, una discontinuità, che riguarda però la modalità di espressione di ciò che egli ha sempre creduto e pensato.

Pacifismo debole?

La contraddizione tra la coscienza cristiana e la guerra esplose allorquando Tolstoj attraversò una grave crisi esistenziale, giungendo – come racconta – a portar via una corda dalla sua stanza per non impiccarsi; a non andare più a caccia per essere tentato con un modo troppo facile di sbarazzarsi della sua vita. Per approfondirne il significato, si pone a studiare filosofia e teologia e ad argomentare, con cognizione di causa, sui processi psicologici e storici che portano alla violenza e alla guerra.

È l’antica sapienza cristiana ancora viva nella civiltà contadina del popolo lavoratore russo, filtrata attraverso i saperi più recenti – da Rousseau a Kant, da Schopenhauer ai positivisti – unita alla scoperta di tutto il filone del pacifismo americano, che gli illumina il gesto di uno e poi di tanti obiettori di coscienza che rifiutano il servizio militare- in particolare i Duchobory del Caucaso, ottomila dei quali aiutati poi da lui a emigrare in Canada – e che gli offre il fondamento della sua teoria della non-resistenza al male con la violenza.

Il suo è un pacifismo debole, basato solo sulla legge morale del non-uccidere, senza rilevanza politica, come si è asserito? A me sembra che si faccia un torto a Tolstoj, attribuendogli un’ingenuità non meritata.

Egli, infatti, se da una parte si limita a richiamare quella legge fondamentale del vivere sociale, dall’altra non ignora tutte le implicanze politiche del comportamento nonviolento dei ‘resistenti’. 

La pace – egli scrive significativamente – è in tutte le bocche, eppure i governi aumentano ogni anno i loro armamenti, introducono nuove imposte, fanno prestiti e accrescono a dismisura i loro debiti, lasciando alle generazioni future la cura di riparare a tutti gli errori della nostra politica insensata… Una tale rivalità è di per sé il più gran pericolo di guerra… Siamo tutti chiamati – aggiungeva in tono profetico – a partecipare alla strage che deve compiersi inevitabilmente” (R.D. p.135/4).

Da qui le feroci accuse allo Stato, non solo a quello zarista, ma ad ogni Stato che si erge sulla legge del dominio e della violenza, perché “dominare vuol dire violentare” (R.D. p. 260). Da qui la critica del nascente Stato liberale, come di quello preconizzato dai rivoluzionari.

Per questo va tacciato di anarchia? Se è indubbio che in certe sue affermazioni siano presenti accenti anarchici, va però subito precisato che egli attacca ‘questo’ assetto statale che si regge sulla legge del più forte e su “un ordinamento arrivato al più alto grado di perfezione: una legione di uomini incaricati di ingannare e di ipnotizzare il popolo”. Perciò desidera “la distruzione dell’ordinamento attuale”, ma spera che “verrà un tempo nel quale gli uomini avranno bisogno di un ordinamento nuovo e questo tempo è già arrivato” ( R.D. pp. 281, 155).

Lo strumento di questo rivolgimento è il rifiuto del servizio militare obbligatorio, più pericoloso per lo Stato delle bombe dei rivoluzionari dei socialisti e dei comunisti che “con le loro bombe, sommosse e rivoluzioni, sono lungi dall’essere pericolosi per i governi come questi uomini isolati”, cioè gli obiettori di coscienza (R. D. p.248).  

Sullo Stato

La responsabilità personale è molto sottolineata da Tolstoj fin dal suo primo romanzo (G. e p., l. III, p. 2, c. 28) e poi negli ultimi scritti in modo sempre più rimarcato (R. D., p. 368). Tuttavia va subito detto che non gli sfugge la gravissima strutturazione dell’assetto socio-politico dello Stato contemporaneo, che non considera la legge del non-uccidere una responsabilità primaria. La riprova è che esso giunge a prescrivere la pena di morte, cioè si arroga il diritto di sopprimere la vita umana. E la guerra, nella sua ottica, non è altro che un omicidio di massa grazie all’esercito, che è ‘un gregge di schiavi’, che cadono nel cerchio della violenza a causa dell’intimidazione oppressiva dei governi, della corruzione dilagante tra le classi dirigenti, di una vera e propria ipnotizzazione dovuta alle superstizioni religiose e patriottiche (R.D., p.211/15).

Tolstoj, però, rimane fondamentalmente ottimista sull’avvenire dell’umanità dicendo che sta per giungere il tempo in cui i popoli si avvedono della grande ipocrisia, anche se questa è ancora coperta dai tentativi dilatatori della politica internazionale.

Al riguardo sono caustiche le sue invettive contro la diplomazia dei governi che condizionano le stesse conferenze di pace. Ma egli spera: “Ecco, dunque, amati fratelli, è quello che io, prossimo ormai agli ultimi giorni o forse ore della mia vita, desideravo ripetervi ancora una volta. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono le alleanze, le conferenze… ma una cosa sola: adempiere nella vita la legge dell’amore verso Dio e il prossimo, che in nessun caso è compatibile con la disponibilità a uccidere e con lo stesso omicidio del prossimo” (Bori, Tolstoj, p. 198). 

L’imperativo etico-religioso del non uccidere, che si rivolge in prima istanza a ogni singola persona, ha una valenza socio-politica, perché porta inevitabilmente all’abolizione del servizio militare obbligatorio, che è – crede Tolstoj – il mezzo più semplice, e a portata di tutti, per abolire la guerra. 

Purtroppo, oggi, gli Stati stanno abolendo questo strumento di costrizione affidandosi sempre più a milizie mercenarie e volontarie. La storia sembrerebbe dar torto alla profezia di Tolstoj. 

In effetti il ricorso al rifiuto delle armi ha disvelato la violenza dello Stato: è a questo che dovrà rivolgersi l’imperativo della legge dell’amore che impone di non uccidere. Tolstoj – come gli riconoscerà Gandhi – per primo nella nostra epoca lo ha intuito e con passione travolgente lo ha riproposto a un’umanità assetata di pace. 

 

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