LAVORO

Quando il lavoro è donna

Nel dopo-Pomigliano e in piena crisi finanziaria, guardiamo la realtà del lavoro dal punto vista femminile: le donne, il lavoro, i servizi e il welfare.
In altre parole, i diritti che non ci sono.
Valeria Fedeli (vice segretaria generale FILCTEM CGIL - settore tessile, chimico ed energia)

L’attuale crisi, inedita e globale, ha fortemente segnato l’economia e la cittadinanza, in particolare nel nostro Paese. Prima del 2008 si era, con forte ritardo, avviato anche in Italia un dibattito pubblico sul valore generale per la crescita e lo sviluppo, equilibrato e giusto, del diritto al lavoro delle donne. Questa crisi, invece, sembra aver fatto retrocedere la situazione di molti anni, colpendo in particolare il lavoro e la vita delle donne.

LE DONNE A CASA?
Aumenta il tasso d’inattività, crescono i licenziamenti e la cassa integrazione e sembra più semplice nelle riorganizzazioni delle imprese, lasciare le donne a casa, con l’idea e la vecchia cultura discriminatoria, che “tanto le donne hanno il lavoro di cura in famiglia da svolgere”.
La nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica fondata sul lavoro, e, all’articolo tre, che vanno rimossi tutti gli ostacoli che impediscono a donne e uomini pari opportunità nel avere il diritto al lavoro.
In Italia, la crisi ha investito la realtà già molto difficile dell’occupazione femminile.
Consideriamo ad esempio criticità storiche, culturali, sociali, economiche che hanno sempre teso a far vivere il lavoro retribuito delle donne come “aggiuntivo”, “secondario”, rispetto a quello degli uomini. E, con pochi investimenti sulle politiche di pari opportunità, di welfare, di pari diritti e di cittadinanza per donne e uomini. Criticità e arretratezze che sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno, dove si è riscontrata quasi la metà del calo complessivo delle occupate, meno 105.000 donne secondo il CNEL. Tutto questo in una realtà geografica che già presentava bassi tassi di occupazione femminile.
In quest’area il tasso d’occupazione è del 30 per cento contro il 57 per cento del nord-est, mentre si è ulteriormente abbassato quello delle donne con titolo di studio inferiore al diploma di scuola secondaria superiore, che nel Sud raggiunge un livello appena superiore al 20%.
Solo le laureate riescono a stare al passo con i Paesi europei, se si escludono però, le giovani donne che continuano a incontrare forti ostacoli sia nell’ingresso che nella permanenza al lavoro.
Sono molto forti anche le difficoltà e le discriminazioni che vivono le donne in coppia con figli.
A tutelare, in questa fase, una parte delle famiglie con figli dal rischio di perdita del lavoro di uno dei genitori, è stato il ricorso alla cassa integrazione.
Nello stesso tempo, bisogna dire a voce alta che la famiglia ha svolto, in questa crisi e in assenza di politiche del governo per superarla, un ruolo decisivo di ammortizzatore sociale. Però, le caratteristiche del momento storico e il continuo aumento della cassa integrazione mettono in pericolo la coesione sociale e, nel prossimo autunno, c’è un forte rischio di licenziamenti e di mancanza di risorse, necessarie per prolungare la copertura economica delle casse integrazioni in deroga.
Tutto ciò, per le donne, avrà un’incidenza drammatica. Senza lavoro, senza prospettive e, quindi, senza autonomia economica.
Invece, il lavoro delle donne è decisivo per difendere le famiglie e i figli dal rischio di povertà (oltre a essere un diritto di libertà e autonomia delle donne stesse).
La tutela del lavoro femminile, in questa crisi, è dunque una priorità per tutto il Paese. Serve per impegnarsi a elevare il tasso di crescita del Paese, per uscire dalla crisi e garantire una più equa ripartizione delle risorse economiche, sociali e delle responsabilità.
Purtroppo, una scelta politica che non ha nemmeno lo spazio nel dibattito pubblico! Solo recentemente il CNEL ha presentato un rapporto sulla situazione del lavoro femminile, sostenendone le fragilità e le contraddizioni e proponendo alcune politiche.
Il cambio di passo è urgente e necessario proprio perché bisogna rendersi conto, sul piano economico sociale e istituzionale, che le politiche destinate alle donne sono essenziali per la crescita economica, non solo onde affrontare l’impoverimento salariale delle famiglie, ma per il benessere della comunità tutta. E, sono politiche che prospettano effettivamente una possibilità positiva tesa ad affrontare questa crisi e a costruire un futuro credibile!

LE PROSPETTIVE
Ci sono gli interventi classici, necessari, tipici delle politiche del mercato del lavoro: facilitare il part-time scelto, sostenere ogni azione per combattere tutte le discriminazioni dirette e indirette legate alla maternità.
Si, ancora oggi, le imprese vivono le donne come “a rischio di maternità”.
E ci sono aspetti, altrettanto decisivi e concreti, quindi, per non discriminare le donne nel lavoro: agevolarne l’ingresso, ma soprattutto, porre le premesse, nella società e nelle imprese, per consentire alle donne di restare nel mercato del lavoro. Queste, anziché essere una risorsa per la qualificazione degli stessi assetti organizzativi delle imprese, valore per qualità e capacità professionale, esempio di forte e responsabile cultura del lavoro, sono viste, da un mondo dell’impresa spesso arretrato quanto a visione culturale e civile, come un costo e un’incognita, per la possibile scelta della maternità o di doppio lavoro, ancor più quando si opera in contesti lavorativi dove le scelte della competizione globale si basano quasi esclusivamente sull’abbassamento dei costi, anziché sull’innovazione e sull’investimento nel capitale umano.
Nella quotidianità del lavoro femminile si determina un conflitto pesante tra attuali modelli organizzativi delle imprese ed esigenze personali, nelle diverse fasi e scelte della propria vita.
Questo è tanto più vero – e più difficile da reggere per le donne – in questa fase di radicale e necessaria trasformazione della realtà economica e produttiva del nostro Paese, della nostra società anche per la ridefinizione delle interdipendenze economiche indotte dalla globalizzazione.
Le ragazze si trovano oggi schiacciate tra un immaginario sociale che le vuole tutte “veline” e un mondo del lavoro che le tiene ai margini.

UN RUOLO DECISIVO
Le donne, invece, possono e devono considerarsi esempio di cultura dell’innovazione, del cambiamento equo, dell’etica del lavoro: ecco perché serve davvero una svolta! Occorre implementare gli interventi e invertire la rotta culturale, rimettendo in movimento la società e la politica italiana.
È necessario associare agli interventi, che prima ho definito classici, una nuova cultura che, mettendo al centro la persona, sappia guardare alle donne che vivono le condizioni di maggior disagio e limitazione, come fulcro di un nuovo assetto e di un nuovo equilibrio della società italiana, per creare davvero pari opportunità, senza nascondersi dietro a una falsa neutralità formale, che è solo una odiosa forma di discriminazione sostanziale.
Bisogna superare l’idea che la competitività di un’impresa e la crescita economica in generale pongano una specie di “neutralità” di fondo sui modelli lavorativi, sugli stereotipi di funzioni prevalenti tra donne e uomini. Così come bisogna superare l’idea che il benessere sociale e lavorativo complessivo sia legato alle sole esigenze di breve respiro del mercato.

DOPO POMIGLIANO
Apro qui, una riflessione che non c’è stata sulla “vicenda di Pomigliano”.
E se fossero state in maggioranza donne nello stabilimento, avremmo contrattato i turni, gli orari, sia con Fiat che fuori dalla fabbrica, in modo diverso?
Un parte dei no a quell’accordo sono stati sicuramente da parte delle donne. E non perché non vedessero nell’investimento, nel futuro dell’occupazione il loro stesso futuro, ma perché quell’organizzazione del lavoro nell’impresa di Pomigliano, oltre ai diritti contrattuali e costituzionali negati, ritratta un corretto equilibrio tra le esigenze dell’impresa e quelle delle donne nella gestione degli orari di lavoro.
Ma di questo nessuno ha parlato né si è riflettuto.
Hanno tutti guardato, con occhi tradizionali di uomini, che possono stare “sempre” a disposizione delle esigenze produttive, tanto a casa qualcun altro pensa alla famiglia, alla riproduzione sociale, ai figli, ai genitori anziani.
Riprendo ricordando che già la Conferenza mondiale delle donne di Pechino nel 1995 ha disegnato, in modo condiviso internazionalmente, i risultati da raggiungere affinché le donne siano parte dello sviluppo della società, con politiche di empowement e di mainstreaming che le liberino come corrente principale dei cambiamenti nei modelli organizzativi del lavoro, di vita sociale e, quindi, nei diritti del lavoro e della cittadinanza.
Le donne sono disposte a spendersi dove si trova partecipazione e senso del proprio impegno, dentro e fuori dal contesto lavorativo in senso stretto, dove c’è rispetto umano, rispetto delle diversità e, quindi, benessere e gratificazione del proprio operato.
Insisto: dove non si fanno discriminazioni, dirette e indirette, tra donne e uomini, nelle condizioni di lavoro, nel riconoscimento economico, dove il dichiararer il valore economico e sociale femminile è parte della filosofia aziendale, lì le donne dimostrano tutto il proprio valore, e il beneficio è per tutti.
Imprese, istituzioni devono fare un salto di qualità coordinato e condiviso su questo piano, così come è necessario rilanciare complessivamente l’attenzione culturale e sociale sul valore del lavoro delle donne, sul loro diritto al lavoro, a non essere discriminate, negate, a essere messe in grado di scegliersi il proprio equilibrio tra esperienze di lavoro ed esperienze personali.
Nelle assemblee, nei luoghi di lavoro con le donne, con le lavoratrici tessili, quello che più mi ha colpito e sconvolto è la paura di vedere schiacciata e compromessa la possibilità di seguire i propri progetti di vita.
Per troppe donne, giovani lavoratrici, fare un figlio è una scelta che mal si concilia con il mantenimento del lavoro, che blocca i percorsi di carriera, che vien fatta pesare da un sistema miope e ipocrita, che dimentica che le scelte di maternità di ciascuna donna e di ciascuna coppia sono anche piccoli mattoni per la costruzione collettiva della competitività del Paese e del suo futuro.
Il riconoscimento della maternità, infatti, è da intendere non più come affare privato bensì come funzione sociale, da riconoscere e tutelare.
E, invece, la precarietà – a maggioranza femminile – non conosce maternità. Anche quando si riesce ad avere un contratto stabile, accadono cose atroci come le “dimissioni in bianco” che tante sono obbligate a firmare al momento dell’assunzione contro il “pericolo” di rimanere incinta!
Le donne vogliono lavorare e fare figli. Vogliono una società amica, che non le discrimini, ma che ne sostenga e valorizzi le scelte e le differenze, una società più giusta e dinamica.
Una società e un mondo eticamente e ambientalmente sostenibile: ecco perché, questa crisi che non “vede” le donne, che le “rimanda a casa”, rischia di non avere futuro per nessuno dei suoi cittadini.

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