Inferno e paradiso
Ai tempi del dittatore Mobutu Sese Seko si chiamava Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo. È un Paese affascinante, autentico crogiuolo di popoli – oltre 55 milioni gli abitanti divisi in trecento principali etnie – con straordinarie culture ancestrali, fatto d’immense foreste equatoriali con una vegetazione spontanea che si manifesta nella forma più esuberante e costituisce il più ricco emporio di piante esotiche, tra le quali primeggiano i palmizi e gli alberi dei legni più preziosi, quali l’ebano e il mogano. Per non parlare dei suoi fiumi o degli struggenti tramonti che rendono questo vastissimo territorio un concentrato di bellezze paesaggistiche che vanno al di là di ogni fantasia e immaginazione. E cosa dire delle immense ricchezze del sottosuolo che accolgono l’intera gamma dei minerali del nostro pianeta?
Un crogiuolo di contraddizioni
Eppure questo gigante africano, con i suoi due milioni e trecentomila chilometri quadrati, rappresenta la metafora per eccellenza delle contraddizioni dell’Africa subsahariana. Da una parte, mai come oggi, si registra una crescita esponenziale degli investimenti stranieri. Dopo un traumatico 2009, quando il Pil congolese è crollato dal 6,2 per cento al 2,5 per cento, il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede tassi di crescita del 6,5 per cento per il 2010 e dell’8,8 per cento per il 2011. Un fenomeno d’inversione determinato per effetto del notevole aumento della produzione mineraria. Il tasso d’inflazione dovrebbe mantenersi elevato, al 25 per cento nel 2010 e al 30 per cento nel 2011. Un trend caratterizzato anche dalla crescita delle esportazioni a un tasso superiore rispetto alle importazioni, la contrazione del deficit delle entrate grazie al sollevamento dal debito e l’aumento appunto degli investimenti dall’estero. Basta dare un’occhiata a quanto riferisce François Misser in un interessantissimo reportage pubblicato su Nigrizia (luglio/agosto 2010) per rendersi conto di che cosa stia realmente avvenendo da quelle parti: “Al Catasto minerale, l’ente che concede le licenze, il direttore generale, Jean-Félix Mupande, mi parla di un gigantesco progetto di sviluppo da parte della Compagnia canadese Ivanhoe, presso Kolwezi, nel Katanga: contribuirà a triplicare la produzione del rame tra il 2009 e il 2012, portandola a 850.000 tonnellate annue. Nella instabile Provincia Orientale, a 2.000 km da Kinshasa, tra tre anni dovrebbe partire il progetto Kibali Gold Mines, una joint venture tra la Randgold, la AngloGold Ashanti e l’Ufficio delle miniere di Kilo-Moto, per lo sfruttamento di giacimenti di oro per un ammontare di 30 miliardi di dollari”. La Repubblica Democratica del Congo possiede – è bene rammentarlo – la metà della riserva mondiale di cobalto utilizzata per le fibre ottiche, ma anche per la produzione di armamenti, ed è il quarto produttore di diamanti, con immense riserve di uranio, oro, coltan, rame e petrolio.
Dunque, contrariamente a quanto spesso si pensa, il Congo non è affatto povero, semmai è impoverito, considerando soprattutto che si tratta di una delle terre più ricche del mondo, con insediata una delle popolazioni più povere del pianeta. È proprio per questa ragione che da sempre il gesuita Rigobert Minani ha denunciato l’inganno. Si tratta di uno degli esponenti più autorevoli della società civile congolese che da anni va ripetendo che “quando si dice che il Congo è uno ‘scandalo geologico’ si intende che il Paese è potenzialmente ricco”. Da sempre queste ricchezze hanno determinato la storia nazionale. Sì, proprio le stesse risorse che ne fanno “uno scandalo geologico” e che sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando quattro, se non addirittura cinque milioni di morti. Ma oggi, anche se le ostilità sembrano formalmente essere cessate, sarebbe decisamente esagerato pensare che il Paese abbia raggiunto l’agognata pace.
La crescente divaricazione tra i ceti ricchi e quelli meno abbienti, la dice lunga. Basti pensare che circa l’1 per cento della popolazione congolese – l’attuale oligarchia al governo – detiene oltre l’80 per cento della ricchezza nazionale. Ecco perché la soluzione delle problematiche interne è necessariamente subordinata all’accesso e alla gestione delle immense risorse del Paese, secondo criteri d’equità. A questo proposito, il fatto che il denaro investito non raggiunga la base sociale del Paese, che sbarca il lunario con un dollaro al giorno e anche meno, è sintomatico della mancanza di politiche in grado di soddisfare i bisogni primari della gente. Ma ciò che forse è ancora più sconvolgente è il fatto che soprattutto sul versante orientale del Paese l’insicurezza continui a regnare sovrana per colpa di formazioni ribelli come il famigerato Esercito di Resistenza del Signore (Lra) che dal Nord Uganda ha trovato riparo in Congo. A ciò si aggiunga il fatto che alcuni degli ex movimenti ribelli occupano oggi posti di rilievo nel parlamento, nel governo, nell’esercito e nell’amministrazione. Insomma, chi aveva le armi in mano si è impossessato dello Stato e delle sue istituzioni.
Una polveriera
A un anno dalle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, il Congo rischia d’essere una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Premesso che alcuni potenti vicini di casa – Rwanda e Uganda – nonostante gli sforzi profusi dalla diplomazia internazionale guardano sempre e comunque con grande interesse alle ricchezze dell’ex Zaire e non pare abbiano rinunciato a spartirsi, prima o poi, i vastissimi territori congolesi ricchi non solo di materie prime, ma anche di legnami pregiatissimi e prodotti agricoli. Il saccheggio, che in questi anni hanno perpetrato nell’ex Zaire direttamente o attraverso loro emissari, è a dir poco scandaloso. Sul piano interno, poi, l’atmosfera rimane incandescente. Il 21 maggio scorso, ad esempio, migliaia di sostenitori del primo ministro Adolphe Muzito hanno preso d’assalto il parlamento a Kinshasa, per impedire il voto di una mozione di sfiducia contro il premier e altri ministri, accusati di cattiva gestione. Sta di fatto che nell’arena politica un numero cospicuo di parlamentari indipendenti, senza i quali il presidente Joseph Kabila non avrebbe più la maggioranza, cominciano a prendere le distanze dal governo, che sembra essere ogni giorno sempre più in affanno.
A fine maggio, tre ministri hanno dato vita a una formazione dissidente, rivendicando più potere, ricevendo al contempo minacce di morte. E come se non bastasse, il 1° giugno scorso, Floribert Chebeya, una delle figure di spicco della società civile congolese, è stato brutalmente freddato. Direttore della “Voce dei senza voce”, la più grande organizzazione per i diritti umani congolese, era stato convocato all’Ispettorato generale di polizia della capitale Kinshasa. Terminato l’incontro e lasciati gli uffici della polizia, si sono perse le sue tracce. Il suo corpo è stato ritrovato il giorno dopo nei pressi della sua abitazione. Già in passato Chebeya era stato arrestato e minacciato. E ancora, nella notte tra martedì 29 e mercoledì 30 giugno, Muhindo Salvator, attivista dei diritti dell’uomo e rappresentante dell’ONG di difesa dei diritti umani “Buon samaritano” è stato assassinato in casa sua a Kalunguta, a 20 chilometri dalla città di Beni, da uomini armati in tenuta militare. Pochi giorni prima, il 24 giugno, i vescovi cattolici avevano inviato una lettera ai politici, in occasione del cinquantenario dell’indipendenza del Paese (1960-2010) in cui tra l’altro si legge: “La lotta contro l’impunità, ‘tolleranza zero’, con lo scopo di arginare o di sradicare la corruzione, sarà efficace solo se i cittadini arrivano a vivere del loro stesso lavoro. Occorre, quindi, un posto di lavoro per tutti e uno stipendio decente per ciascuno”. Il cammino verso la democrazia è davvero ancora tutto in salita.