La lunga notte di Baghdad
Molti scappano dall’Iraq e da quelli che restano il grido: “Non dimenticateci”.
È notte a Baghdad. Sono le 4 e mezza del mattino di giovedì 26 agosto. Il taxi che mi deve riportare a Kirkuk, si aggira lentamente tra le case di Palestine street, per caricare altre persone. I fari dell’auto illuminano sagome, ombre di persone che si avviano al lavoro (chi è fortunato ad averlo) cercando di iniziare presto per sfuggire alla morsa del caldo che supera di giorno i 50 gradi. C’è qualche bagliore, a lato della strada, sotto le tettoie; sono le scintille di un fabbro che lavora con il saldatore. Sulla strada, oltre alla gente a piedi, qualche piccolo camioncino, sgangherato, le luci posteriori sono un optional, e anche grandi TIR. Non è ancora il traffico caotico che si vive a Baghdad di giorno, simbolo del caos che regna nel Paese.
Dal 1991 in poi
E la mente viaggia nei ricordi di questi anni. La guerra del 1991, e prima ancora la guerra tra Iran e Iraq. Le bombe intelligenti, all’uranio impoverito, al fosforo bianco. La partecipazione dell’Italia a questa guerra. I nostri soldati uccisi, il 12 novembre 2003. Le mine vendute dall’Italia a Saddam e usate al nord contro i Kurdi. E poi l’embargo. E poi un’altra guerra, iniziata nel marzo 2003 e, secondo Bush, finita a maggio dello stesso anno. Così almeno diceva lui. Ma basta girare per Baghdad e ci si rende conto che le ferite della guerra sono ancora lì, tutte aperte, anzi, forse, addirittura peggiorate in una situazione da cui non sembra esserci via d’uscita. Ma tutto questo sembra dimenticato dall’informazione di casa nostra. E vengono alla mente i massacri e le violenze che per mesi, per anni hanno fatto parlare di questa terra dei due fiumi. E anche le persone, forse anch’esse dimenticate. Il rapimento delle due Simone, di Giuliana Sgrena, l’uccisione di Nicola Calipari. Mi viene la pelle d’oca a ricordarlo, qui su queste strade, le stesse che anche lui ha percorso con la Corolla, diventata la sua tomba. E chi ti ricorda ancora, Nicola? Quanta falsità e ipocrisia nei mezzi d’informazione e nella diplomazia internazionale!
Ora, sì dice, in Iraq non c’è più guerra, si va verso la democrazia. I soldati USA tornano a casa. Ma la gente che incontro mi ricorda che sì, gli americani partono, ma i problemi restano. Me lo conferma anche mons. Warduni, vescovo ausiliare del patriarcato caldeo: “Abbiamo molte difficoltà e tu le hai potute sperimentare in questi giorni. È una vita da non augurare a nessuno. Oltre alle fatiche concrete non si vede uno spiraglio, non c’è miglioramento. Non vorrei essere pessimista e perdere la speranza, ma andiamo di male in peggio. E anche per i cristiani c’è un esodo continuo. Qualcuno dice che circa la metà dei cristiani ha lasciato il Paese, perché non c’è pace, non c’è lavoro, c’è solo tanta paura. Se prendi in mano il libro-intervista che Aldo Maria Valli ha scritto nel 2003: Dio non vuole la guerra in Iraq, vedrai che le cose che dicevo allora, si sono tragicamente tutte avverate”. E continua: “Quanto ha gridato Giovanni Paolo II contro la guerra? E altri, come voi di Pax Christi? E chi ha ascoltato? La guerra è solo distruzione! E ora dove sono i giovani che tu hai incontrato nel 2003? Le loro famiglie? Oggi ci sono orfani, vedove e sempre tanta paura. Dove sono i diritti umani in Iraq? Questa non è pace. Basta camminare per le nostre strade per rendersene conto. E poi non dimentichiamo che l’ambasciata USA a Baghdad è la più grande del mondo, circa 15 kmq. Hai sentito ieri ( 25 agosto) anche qui vicino lo scoppio di autobombe. L’anno scorso anche davanti alla mia chiesa uno scoppio ha ucciso due giovani appena usciti dalla messa. È questa la pace ?”.
Dal petrolio alle armi
Mi dice Netva, che sa qualche parola d’italiano, che a Baghdad c’è l’energia elettrica per circa 3 ore al giorno. Per il resto ci sono i generatori: del quartiere, o della strada, che ovviamente devi pagare, e poi chi può usa anche il proprio generatore ma il gasolio costa, e non poco, per essere nel Paese del petrolio. Qualcuno giustamente ha scritto che in Iraq il suono del liuto è stato sostituito dal rumore dei generatori. Un rumore continuo e assordante che ti accompagna ovunque. E mentre scrivo questo pezzo sull’Iraq, leggo sul sito di unimondo.org quanto scrive Giorgio Beretta sul commercio delle armi: “Secondo il rapporto Conventional Arms Transfers to Developing Nations 2002-2009, consegnato ai primi di settembre al Congresso degli Stati Uniti, i Paesi in via di sviluppo continuano ad essere il principale destinatario delle esportazioni di armamenti da parte dei Paesi produttori. L’Italia si è attestata anche nel 2009 tra i cinque maggiori fornitori internazionali di armamenti convenzionali e le sue esportazioni sono state dirette principalmente ai Paesi in via di sviluppo. La quota maggiore di esportazioni di armi italiane nel quadriennio 2006-2009 è ricoperta da una delle aree di maggior tensione del pianeta, il Medio Oriente. E con 3,3 milairdi di dollari di contratti stipulati nel 2009 l’Iraq figura tra i maggiori acquirenti mondiali di armamenti”.
Sono numeri che fanno riflettere. Che aiutano a guardare con occhi diversi, oltre a quello che normalmente si vede per le strade di Baghdad, di Kirkuk, di Erbil, di Duokh, Zako, Sulaymaniya. A dire il vero, se non si vedono tutte le armi di cui parla l’articolo di Beretta, se non si vede il grande giro di prostituzione di sfruttamento della donna, si vedono però i contractors (mercenari) su grandi automobili, vetri scuri, senza targa, fanno il bello e il cattivo tempo, come e quando vogliono. Solo a vederli ti viene paura. E qualcuno dice che ce ne siano in Iraq a migliaia. Altro che pace.
Ma l’Iraq è anche il Paese accogliente, con tante persone pronte a dare il benvenuto a chi arriva da lontano, anche se occidentale, come l’Imam sunnita a Kirkuk, Alì Alkhalidi. L’ho incontrato anche in altri viaggi. È sempre molto cordiale. È già stato anche a Roma, dal Papa e la foto con Benedetto XVI è in bella vista sulla sua scrivania.
È molto amico di Louis Sako il vescovo di Kirkuk. Lavorano insieme per il dialogo, per la pace e la condanna di ogni violenza. C’è un legame sincero di amicizia.
Per questo, dice mons. Sako, “noi dobbiamo impegnarci tutti per la pace, per il dialogo. A volte arrivano dai vostri mass-media segnali molti brutti, che ci complicano la vita. Dobbiamo continuamente ricucire strappi che dall’esterno del nostro Paese vorrebbero condizionare anche i nostri rapporti. Io credo invece che ci sia una speranza se lavoriamo insieme contro ogni violenza, con scelte concrete non solo a parole, per la pace”.
Mons Sako verrà a Roma con tutti i vescovi, per il prossimo Sinodo delle Chiese del Medio Oriente, convocato dal 10 al 24 ottobre.
Ne abbiamo già parlato sul numero di Mosaico di pace dello scorso settembre.
È ancora buio a Baghdad. E la speranza è davvero poca. Il futuro è buio, oltretutto da oltre 6 mesi non c’è un governo. Ma la voglia di sperare, di lottare per la pace di denunciare la follia delle armi e della guerra ti viene anche solo per il sorriso di chi come Noa, che non sa l’italiano, con gli occhi ti fa capire che è contenta che qualcuno si ricorda di loro e ti dice timidamente ‘Shucran, grazie!’.
È notte a Baghdad, ma basta anche una piccola luce per ...