Sulle piste di sabbia
Ovvero la paura della libertà.
Sento rinascermi in cuore di tanto in tanto e ancora non è spenta – eppure di anni se ne sono srotolati da allora, più di dieci – la nostalgia di un’estate in Giordania, nostalgia delle piste di sabbia del deserto. Piste infinite, inafferrabili, a smarrimento di occhi e folate di vento. Negli occhi e nei capelli.
E fu desiderio una sera di fissare in righe quella straniante emozione, con gli occhi che già andavano ai giorni futuri:
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l’assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli
spazi senza recinti
e l’eco dopo millenni
di messaggi segreti
incisi da beduini
su rocce di basalto.
A segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d’indipendenza
nell’infuocato deserto.
Nostalgia di spazi e di libertà, che si fa ferita per restrizione, ora che le case, come fossero picchetti, fanno barriera da un lato e dall’altro della strada e negano sconfinamento alla sete degli occhi, cancellando l’oltre, impoverendo visioni. Mi odo camminare nel segno della restrizione e del contenimento. Quasi fosse scritto divieto, divieto a una sete che chiamo sete di libertà.
Tra menzogna e verità
E sento, soffro sulla pelle a incisione la ferita della menzogna, la menzogna circa la libertà. Soffro lo svilimento, l’estenuazione, la sconsacrazione di una parola che è sacra, fatta oggetto di prostituzione. Scrivono libertà su ogni dove, perfino sul nome dei partiti, antichi e nuovi, proprio là dove è trasalimento di paura a ogni sussulto pur minimo di indipendenza, là dove è in sospetto il libero pensare e il libero comunicare.
C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. Che non è solo di oggi. Chi di noi ha più anni sulle spalle ricorda come non raramente si giustificasse l’imposizione di regole dall’alto o una cieca obbedienza con il fatto che il popolo, la gente semplice – si diceva – è lontana dall’essere matura e dunque va indirizzata. Conseguenza fu la crescita di uomini e donne dipendenti, che pensavano di essere virtuosi, affidando la navigazione della coscienza e dell’intelligenza ad altri.
La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto. Meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. E, confessiamolo, non sempre abbiamo avuto e abbiamo occhi e vigilanza per questo esproprio strisciante della libertà. Le lusinghe del potere sono altamente seduttive. A tal punto la loro fascinazione che a volte neppure ci si accorge che per un pugno di vantaggi si è sul punto di vendere la libertà. Con esiti di raccapriccio, perché un popolo della dipendenza non può che prefigurare panorami di disgusto.
Non è forse vero che nei giorni di fame, di sete, di stanchezza nel deserto era accaduto agli israeliti, sfuggiti al giogo del faraone, di rimpiangere le pentole della carne e le cipolle d’Egitto? Come se vendere la libertà non costituisse baratto di cecità e di mostruosa insipienza.
La lusinga accompagnò nei secoli futuri il popolo di Dio, che si illuse, succede anche oggi, che rimedio ai problemi cruciali del tempo fosse l’entrata in scena dell’uomo forte, l’uomo della provvidenza. Così gli israeliti pretesero da Dio un re. Ma non erano forse usciti i loro padri dall’Egitto, per sfuggire a una sottomissione? Alla sottomissione a un re, il faraone, che si era fatto come Dio, Dio in terra?
Ebbene Dio rispettò la decisione, ma attraverso le parole del vecchio Samuele mostrò quali sarebbero stati i costi di questa scelta, svelando ciò che sarebbe avvenuto in futuro. Il futuro della concentrazione del potere in uno solo sarebbe stato l’abuso e lo sfruttamento. Li mise sull’avviso: il re, il capo assoluto, avrebbe preso i loro figli per l’esercito; avrebbe preso le loro figlie per il suo harem; avrebbe preso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti più belli, e li avrebbe dati ai suoi ministri, avrebbe preso mano d’opera e bestiame, li avrebbe adoperati per i lavori in casa sua e dei suoi cortigiani. Sembra di leggere una pagina dei nostri tempi, una descrizione impietosa dei meccanismi e degli esiti di un potere che si arroga il diritto di essere assoluto, assoluto e insindacabile, e piega tutto e tutti ai suoi interessi. La Bibbia conosce questa facile perversione del potere, ed è estremamente critica.
La lusinga, dobbiamo riconoscerlo, accompagnò e ancora oggi accompagna, il popolo dei credenti. Voci di Padri antichi, voci di vigilanti, già nei primi secoli, mettevano in guardia dall’esproprio strisciante e sottile della libertà ad opera di atei devoti. Una delle voci lucide, quella di Ilario di Poitiers, scriveva: “Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga: non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce per la morte; non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua reggia per la servitù: non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore; non taglia la testa con la spada ma uccide l’anima con il denaro; non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto, ma lusinga per dominare; confessa il Cristo per rinnegarlo; favorisce l’unità per impedire la pace; reprime le eresie per sopprimere i cristiani; carica di onori i sacerdoti [...] costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca [...]”.
Così Ilario di Poitiers, grande padre della Chiesa. Parole che ci chiamano con forza alla vigilanza, non solo fuori ma anche dentro le Chiese. Non è forse vero che troppo disinvoltamente e presuntuosamente ci definiamo donne e uomini liberi? Ricordate quel gruppo di dirigenti Giudei che a Gesù obiettano: “Come puoi dire: sarete liberi? Noi non siamo schiavi di nessuno”. Anni fa mi capitò di leggere, tra gli aforismi di Luigi Erba, uno che registrava con sottile disincanto la situazione della nostra libertà, scriveva: “Si parla di società permissiva e si inventa un’illusione. In realtà si vive in una selva di divieti e di costrizioni. Molte libertà si conquistano solo con i privilegi e i privilegi si ottengono con la violenza. I privilegi sono di pochi potenti e, a discendere, dei loro portatori d’acqua con le orecchie. Un gran numero di formiche, lavorano per pochi e le poche cicale pretendono che le formiche cantino per intrattenerle”. Un pessimismo forse in eccesso, ma non totalmente ingiustificato.
Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Succede quando la libertà viene evocata più per mettere in guardia dalle sue possibili derive che per annunciarne la bellezza e la forza, bellezza e forza di un messaggio che trascina, fa alzare il capo e sprigiona vento di insurrezione, di indipendenza dai mille faraoni che pretendono sudditi devoti. Ci accomuna una vocazione, quella ad essere donne e uomini liberi. Sì, una vocazione. Di tutti. Come dirà Paolo nella lettera ai Galati: “Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà” (Gal 5,13). E ancora: “Cristo ci ha liberati per una vita di libertà” (Gal 5,1).
E la nostra immagine?
Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo, l’immagine che diamo sia quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti. Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI – e volevano essere parole profetiche – pronunciò in un’udienza generale, il 9 luglio 1969. Diceva: “Il nostro tempo di cui il Concilio si fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di ogni figlio della Chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo, sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali”.
Commentava Enzo Bianchi: “Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria”.
Da fissare a memoria con le parole di Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Da niente e da nessuno. E sia vento di libertà sui nostri volti smunti.