Il conto della crisi
Cosa c’è di etico nell’abbassare il rispetto dei diritti in nome della crisi? Se si tratta di diritti (e quindi intoccabili) le soluzioni vanno cercate altrove. Cosa c’è di peggio di questa guerra tra poveri scatenata con la delocalizzazione della produzione verso Paesi in cui la manodopera costa meno e nello steso tempo la forza dei sindacati è ridotta a zero e la parola sciopero non si può pronunciare? Abbiamo sempre pensato che si andavano a costruire auto, divani e scarpe nei Balcani o in Asia perché lì stipendi più bassi garantivano comunque dignità ai lavoratori. Ci rendiamo conto oggi che nemmeno le famiglie degli operai polacchi, serbi e tailandesi riescono ad arrivare alla fine del mese. Ma allora non stiamo esportando benessere ma disperazione! Ma soprattutto perché il prezzo della crisi devono pagarlo i lavoratori? Non sarebbe più giusto caricarlo sui portafogli dei proprietari degli yacht che affollano le banchine di Porto Cervo e di chi in una settimana guadagna quel che un operaio forse vede passare sul suo conto in un anno? Un problema di giustizia, una questione di diritti, o semplice buon senso.