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Lettera a una professoressa

Dalla pubblicazione in inglese del famoso testo di don Milani, una rilettura della “parola” oggi e di come la scuola traduca in programmi la necessità di trasmettere voglia di futuro ai giovani.
Patrizia Morgante

L’occasione è la traduzione in inglese, pubblicata a Malta, del famoso (direi profetico) testo di Milani, Lettera a una professoressa, diffuso nel 1967 poco tempo prima della sua morte. È una lettera “partorita” a più mani da Milani e diversi dei suoi allievi: un bell’esempio di scrittura collettiva, così cara all’educatore italiano.

Quella di don Milani è la storia di tanti altri “don” di oggi che, perché scomodi e troppo poco discreti, vengono relegati in realtà isolate e distanti con l’intento di renderli innocui. Per fortuna la forza della vita è sempre più forte di tutte le prigioni che l’essere umano crea per sé e per i suoi simili, e don Lorenzo Milani con la sua Scuola di Barbiana riesce a far fiorire germogli tra le pietre, a raccogliere frutti in campi classificati, da altri, aridi e improduttivi.

 

Educare 

responsabilmente

Questo libro nasce dalla passione di tre docenti, ma è anche il frutto di un percorso che altri a Malta stanno facendo da anni, una riflessione attenta su pedagogia critica, educazione popolare (in particolare Paulo Freire), cittadinanza responsabile; anche in collaborazione con altri educatori ed educatrici in altre parti del mondo. Il libro si compone della non facile traduzione in inglese della Lettera a una professoressa, e di un intervista a Edoardo Martinelli, alunno di don Milani (www.barbiana.it). Significativi sono anche i contributi sul pensiero critico, offerti nella prefazione e nel prologo, rispettivamente dal prof. Peter Mayo e Domenico Simeone. L’intervista di Edoardo è in originale italiano; quindi, questa recensione non è solo per un pubblico anglosassone o per il libro in sé: è un’occasione per dare credito al lavoro dei miei amici maltesi, e, soprattutto, per re-incontrare questa figura di educatore, italiano, che ci interpella profondamente.

Dagli ultimi dibattiti (e riforme) sul percorso scolastico italiano, sembra prevalere l’idea di una scuola che privilegi il fare, l’inserimento nel mondo del lavoro, la competenza spendibile nell’immediato. Si diffonde come una virus l’idea che la scuola, per essere efficace ed efficiente, debba trasformarsi in un luogo freddo, disumano, oggettivo e solo orientato a degli obiettivi misurabili. Che idea di essere umano si nasconde dietro a queste idee? Che idea di studente abbiamo in mente? Che cittadino vogliamo formare per il futuro della nostra società?

Se pensiamo che educare sia formare cittadini socialmente e politicamente consapevoli e responsabili, allora possiamo abbeverarci alla fonte degli scritti di don Milani, per recuperare (in caso come me sentiate di averli un po’ smarriti) la passione e il sogno di una scuola che umanizza, che apre orizzonti, che stimola interrogativi, che problematizza. 

Riscoprire le intuizioni di don Milani ci aiuta a recuperare la consapevolezza del protagonismo dello studente, della valorizzazione del suo sapere inconscio, della passione per la ricerca del sapere cosmopolita e interdisciplinare. Ci stimola a studiare e a ricercare a partire dalla realtà che viviamo nella quotidianità, dal linguaggio che ci appartiene, dalla storia che abitiamo. Ci fa sentire maestri e allievi allo stesso tempo di uno spazio educativo che appartiene a docenti e discenti; tutti lo abitano e ognuno ha diritto a prendere la parola, a dire la “sua” parola. 

Il diritto alla parola

La parola: leggere la parola/mondo, scoprire e giocare con le parole, analizzare e scoprire la storia della parola, condividere le parole, tradurre le parole, conoscere le parole... 

La comunicazione era essenziale per don Milani: saper parlare è la base del processo di liberazione ed emancipazione. L’importanza della parola e della comunicazione, così attuale questa intuizione. 

La parola è un diritto e un dovere. La parola come dovere è responsabilità civile e politica, è denunciare per annunciare; la parola come diritto è dignità di starci, di occupare uno spazio...

L’educatore deve creare e alimentare il contesto giusto perché tutto ciò avvenga. Insegnare così è più faticoso che attenersi a dei test asettici, privi di creatività e spirito critico. Insegnare come faceva don Milani ti coinvolge emotivamente e intellettualmente in prima persona. Emoziona, commuove, richiama le viscere. Don Milani era conosciuto anche per la sua irruenza, per la sua potenza nel parlare e nel portare avanti le sue idee.

La scuola di Barbiana per don Milani era parte essenziale della sua pastorale, era la sua pastorale. Non c’erano orari, perché si viveva integrando teoria e prassi, parola e azione, mente e mani, dentro e fuori, corpo e spirito, nazionale e internazionale. Edoardo Martinelli nella sua intervista dice che non si sentiva mai urlare nella scuola. Il sogno di tutti i genitori e insegnanti!

Quanta fatica a gestire l’irruenza dei giovani perché non sappiamo catturarla, incanalarla verso la costruzione creativa di un progetto, un’idea?

L’indisciplina nasce dalla noia, dalla passività, dal “non mi riguarda”. Risvegliare la chiave del “I care” in ciascuna persona è una sfida che la scuola non può delegare a nessun’altra istituzione o veicolo formativo.

Cosa ci ha lasciato la scuola di Barbiana? Oltre agli scritti, una fondazione e diverse associazione ispirate alla sua figura, credo che la cosa più importante siano le persone, come Edoardo Martinelli, che hanno saputo incarnare la prassi della scuola e oggi sono cittadini impegnati, che fanno convergere benessere personale e bien vivir sociale. 

Grazie, don Lorenzo, per la tua generosità intellettuale e per la pervicacia con la quale hai saputo portare avanti la tua pedagogia... Grazie anche a chi, testardamente, continua a interrogarsi con i suoi scritti e a dare vita a riflessioni utili per educare in una società complessa come la nostra. 

Se oggi Milani fosse vivo gli chiederei: perché i suoi alunni erano tutti maschi?

 

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