TEOLOGIA DELLA PACE

Il Dio incompreso

Se fossimo in tanti, e uniti, a vivere la nonviolenza, il Regno di Dio si compirebbe prima.
Maurizio Burcini (Pax Christi Bologna)

La verità, per il cristianesimo, è la carità, che ha come modello l’amore con cui Dio ci ha amati. Amore-carità che non può racchiudersi in una costruzione teoretica, ma è tutto concentrato nel Figlio crocifisso e risorto, emblema massimo di un Dio che si piega con bontà infinita al servizio dell’uomo, malato e cattivo. La verità, in altre parole, non deve sostare sul piano filosofico, ma su quello etico. Una verità di altro tipo, cioè disincarnata, sarebbe vera quanto un animale imbalsamato in un museo.

Il cristianesimo non è una filosofia della vita, ma è vita, amore che assume una forma visibile. Non è una riflessione; non adesione mentale a una verità, a una dottrina: è un Francesco d’Assisi, una madre Teresa... È una persona che ama e agisce.

La verità muore quando si pretende di esprimerla, nel suo più alto grado, con l’adesione concettuale a un dogma; nella storia, la difesa di questo tipo di verità ha portato alle guerre. 

La verità cristiana, invece, è la difesa della vita in tutte le sue forme, ma non la difesa di una vita a scapito di un’altra. 

La strada della verità cristiana non può mai portare alla guerra o all’omicidio.

Il cristianesimo si gioca tutto nel rapporto che si crea con l’altro, poiché Gesù ha rivelato questo tipo di trascendenza, che è sul piano etico: vivere per l’altro.

Etica e coscienza

L’etica (il comportamento, le azioni) si basa su principi che, benché interpellino sempre, in ultima istanza, la propria coscienza, sono ritenuti, per il cristiano, provenienti dalla fonte di Dio. Il cristiano ritiene, insomma, che sia Dio stesso a indicargli ciò che è giusto fare. Ma il fatto di essere stati creati da Dio a sua immagine e somiglianza, dovrebbe significare che:

- Dio non chiede di fare ciò che lui stesso non fa;

- quello che lui chiede di compiere ci permette anche di farlo. Lui stesso ce ne dà la forza, la capacità;

- in Dio il fare e l’essere (esistenza e essenza) coincidono;

- Dio, in Cristo, ha compiuto ciò che chiede a noi (e si è pienamente rivelato per spiegarci meglio tutto di sé, per fugare ogni dubbio). In termini filosofici, potremmo dire che ha fatto esistere la sua essenza.

Si fallisce sul piano etico quando disobbediamo, per varie ragioni, alle indicazioni di Dio oppure quando non capiamo, fraintendiamo ciò che Dio ci chiede, poiché non abbiamo ancora capito ciò che Dio è (o, almeno, secondo la via teologica negativa, ciò che Dio non è. È il fallimento della mancata, e quanto mai necessaria, interconnessione tra etica e teologia, cioè tra azione e fede, nda ).

Se riteniamo possibile, ad esempio, che Dio sia facile preda dell’ira, che uccida i suoi nemici, che arrivi a compiere stermini per castigare o per imporre il suo volere, anche la mia etica sarà allineata a quell’idea che io mi sono fatto di Dio. Ma se a priori credo che il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo sia incompatibile con quell’immagine violenta, la rifiuterò anche nella mia etica. Questo è quanto, purtroppo, non è successo nella storia del cristianesimo, appunto perché si è interpretato Dio come non è. Ci siamo trascinati dietro delle immagini divine che in realtà sono costruzioni umane, sporche del nostro peccato, della nostra violenza originaria: quella sporcizia l’abbiamo gettata contro Dio, infangando di conseguenza la sua e la nostra etica. 

Mi sto riferendo, in modo particolare, al grande tema etico – e insieme teologico – di “pace-violenza-guerra-difesa”. 

Ritengo che tutto il discorso sulla pace sia, principalmente, un problema teologico, che riguarda la nostra comprensione dell’essere di Dio: un’identità concentrata, spiegata, rivelata nell’essenza e nell’esistenza di Gesù di Nazareth, nel suo messaggio-persona inteso come totalità. La questione ermeneutica è tutta lì, così come è tutta lì la soluzione del problema etico della pace. Dobbiamo fissarci sul Figlio di Dio venuto appositamente a rivelarci il volto, altrimenti sfuggente, del Padre.

Ciò che avviene nella storia di Gesù di Nazareth, nel suo rapporto con gli uomini, è un’eloquente analogia del modo in cui si è manifestato il rapporto Dio-uomo nell’intera storia biblica. Così, come tra Gesù e i discepoli, abbiamo dei continui fraintendimenti sul messaggio e le parole del Maestro (i Vangeli documentano numerosi episodi di travisamento da parte degli apostoli), allo stesso modo va letto l’intero Antico Testamento, che a parte lo spiraglio profetico, è un travisamento pieno del messaggio e dell’immagine stessa di Dio, che appare, infatti, come un Dio estremamente esigente, violento, guerriero. 

L’aspetto più importante che segna l’unità fra Antico e Nuovo Testamento mi pare essere questo: lo Spirito è presente (come volontà divina di rivelarsi), ma è l’uomo che non capisce quel linguaggio, e lo interpreta a modo suo. Soltanto la croce-resurrezione sarà l’evento che permetterà la traduzione del linguaggio di Dio; la croce-resurrezione è la scoperta del Dizionario divino, grazie al quale siamo ora in grado di riprendere i vecchi testi incomprensibili, male-interpretati, e ritradurli nel linguaggio di Dio, per conoscerne il vero messaggio. 

Nessun’altra chiave, se non la croce, può aprire alla comprensione del messaggio di Dio, e può insegnarci a dare la pace “non come la dà il mondo” (Gv 14,27).

Cosa sarebbe potuto succedere, storicamente, se i discepoli avessero capito, prima dell’evento croce-resurrezione, il senso pieno del messaggio di Gesù?

Lo so che i discorsi ipotetici servono a ben poco, perché ormai i giochi son fatti, però in questo caso, riflettere sul passato, anche sviluppando ipotesi, può essere utile per comprendere il tempo presente e per prepararci al futuro.

Se i discepoli avessero compreso Gesù, egli non sarebbe rimasto solo, non sarebbe rimasto “il solo”; dei suoi dodici collaboratori più stretti, soltanto uno lo ha veramente tradito (rifiutando, nel modo più spregevole, la sua offerta d’amore). Gli altri undici, o non lo hanno capito, o hanno avuto paura di seguirlo fino in fondo.

Ma se i capi ebrei e romani, anziché avere una persona scomoda da eliminare, ne avessero avute 120, o 1200… Immaginate 120.000 Gesù all’opera, tutti nello stesso momento, nello stesso contesto: le cose, secondo me, sarebbero andate molto diversamente. Se, infatti, assumiamo per vero il principio della piena libertà umana, in linea teorica tutto sarebbe stato possibile.

Se l’opposizione nonviolenta fosse stata operata da una moltitudine, non possiamo non immaginarci automaticamente scenari molto diversi da quelli che hanno segnato la vicenda Gesù.

E, per giunta, siamo riusciti a costruire scenari peggiori del singolo innocente torturato e ucciso. Abbiamo continuato a costellare la storia di tanti altri eventi drammatici che hanno sconvolto gli equilibri dell’umanità; gli ebrei massacrati nel XX secolo rappresentano forse uno tra i massimi emblemi del Gesù lasciato solo, come allora, tra l’indifferenza delle moltitudini che hanno permesso, grazie alla loro in-azione e non-opposizione al male, il compiersi di un altro tra i mille sacrifici ingiusti della storia.

Questa riflessione, come dicevo, si deve applicare all’oggi; la storia insegna, ci serve da guida per non rifare gli stessi errori, per agire meglio, in coerenza coi dettami evangelici. Restare uniti, innanzitutto come cristiani, è un impegno imprescindibile per portare finalmente a compimento il Regno cui tutti apparteniamo, e che, come già faceva intendere il Concilio Vaticano II (cfr. Unitatis Redintegratio, n.4, nda), la nostra discordia sta ritardando.

 

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