Democrazia digitale

Militanza politica e partecipazione ai tempi di internet.
Nicoletta Dentico

Nel gennaio 2007 al centro della copertina del mensile Time, che tradizionalmente apre con la “persona dell’anno”, compariva un computer dotato di un monitor argentato in maniera da rispecchiare l’immagine del lettore. In basso, si leggeva “You. Yes, you. You Control the Information Age. Welcome to Your World” ( “Tu. Sì, tu. Tu controlli l’era dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo”). L’accattivante scelta della rivista veniva spiegata in un dossier che esordiva con una interessante riflessione sull’era della democrazia digitale. Per noi, il concetto di democrazia richiama inevitabilmente una dimensione esperienziale molto forte, una narrazione che è non solo politica, ma anche sociale, di partecipazione emotiva, di scambio anche conflittuale di idee. Democrazia, insomma, come esercizio di corpi, oltre che di menti e di passioni civili. È possibile, allora, una democrazia digitale?

La spinosa vicenda dei 92.000 documenti sottratti al regime di segretezza militare e pubblicati lo scorso luglio dal fondatore di Wikileaks, Julian Assange per scavare in profondità la vera natura della guerra in Afghanistan rivela, senza tanti giri di parole, che ciò è possibile. Ne emerge in effetti il ruolo decisivo che il singolo individuo può avere nello smascherare il potente abuso dei governi. La novità risiede nel fatto che l’accesso alle nuove tecnologie ha permesso a tutti i cittadini del mondo, quasi senza mediazione alcuna, di acquisire la conoscenza diretta delle pieghe recondite dell’occupazione e scardinare le logiche di potere costituite. Una dinamica che non è scevra di ambiguità e rischi di strumentalizzazione naturalmente, ma che in qualche modo forza uno scrutinio sulle azioni dei governi che qualche tempo fa era semplicemente inconcepibile. 

Consenso in rete

La campagna presidenziale di Barak Obama ha rappresentato forse il primo colossale modello di mobilitazione politica e di costruzione del consenso elettorale attraverso la rete. Prima ancora dell’avvio della campagna elettorale per il nuovo presidente degli Stati Uniti, è stata la forza dirompente del movimento virtuale Move On (www.moveon.org), oggi comprendente 5 milioni di americani di tutte le estrazioni sociali – dal fabbro alla mamma casalinga ai manager, come si legge sul sito – ad articolare la voce del cambiamento e la costruzione di un’alternativa, fino a preparare il terreno a una figura relativamente sconosciuta come il senatore Barak Obama. Oggi la famiglia Move On, nata il 18 settembre 1998 sotto la presidenza di Bill Clinton, è articolata in diverse organizzazioni che mobilitano i cittadini sul fronte della azione civile (MoveOn.org Civic Action) e su specifiche battaglie condotte davanti ai congressmen, il cui lavoro viene costantemente monitorato (MoveOn.org Political Action). Ogni membro può dare indicazioni su questioni da seguire o priorità strategiche sulle quali mobilitarsi, nonché imbastire azioni specifiche sulle quali ingaggiare l’attenzione dei cittadini e delle comunità locali. 

E non è un caso, a questo punto, che la campagna elettorale del candidato democratico sia stata sapientemente costruita su una strategia digitale, al punto che senza il web non ci sarebbe stato il presidente Obama, come sostengono studiosi della materia, nonché gli autorevoli veterani di internet (Craig Newmark, fondatore di Craigslist; Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook; l’inventore dei Creative Commons, ecc.) che hanno attivamente disegnato e promosso la tecnica di comunicazione del candidato democratico, fondata su nuovi rapporti sociali e una nuova dialettica politica. In America, Obama lo chiamano “il Google della politica”, per la velocità dell’enorme successo, per la conoscenza delle nuove tecnologie e la capacità di usare queste piattaforme immateriali come nessun altro leader finora. Anche per questo ha preso il 70% dei voti, e in certi sobborghi ricchi ha avuto 70 volte più finanziamenti del medio distretto postale americano. Grazie all’approccio digitale, infatti, gli è stato possibile organizzare una mobilitazione di fondi assolutamente dirompente rispetto ai poteri forti e alle imponenti lobby che da sempre tengono le redini della democrazia statunitense. Una novità assoluta ed entusiasmante, una rivoluzione nella rivoluzione. Eppure Obama disegna le primissime mosse di quello che verrà, e noi, in altre parole, siamo nel tempo della protostoria di nuove dinamiche della politica e della formazione delle opinioni.

Manifestazioni telematiche

Internet stesso si sta decisamente evolvendo, da agglomerato di siti web autonomi da consultare per accedere a informazioni e pubblicazioni a piattaforma relazionale. Non più necessariamente luogo impersonale e spersonalizzante, al contrario spazio per sperimentare nuove forme di contatto, di espressione personale, di partecipazione e di diffusione di contenuti spesso prodotti dagli stessi utenti. La questione che molti si pongono è se queste forme di aggregazione, che nascono e si mantengono sulla rete, siano paragonabili a vere comunità o siano invece pseudo-comunità, ovvero raggruppamenti che consentono solo interazioni di carattere limitato e individuale, senza un sufficiente grado di coinvolgimento. In quanto tali, sono comunità di serie B rispetto a quelle tradizionali vissute non sono nel cyberspazio, ma in una dimensione di fisicità e di esperienza piena, con tutte le emozioni che questa esperienza di comunità comporta. Non mancano, però, tratti comuni. Ad esempio il fatto che un certo numero di persone interagisca contemporaneamente, magari anche per tempi ripetuti e prolungati, in uno “spazio collettivo” che – per questa interazione – genera valori comuni e significati condivisi, finanche ciò che possiamo definire senso di appartenenza. Fra l’altro, occorre constatare un’interazione sempre più strutturata delle due forme di comunità, a una progressiva trasformazione o ibridazione dei territori (mentre scrivo, in ogni angolo del globo si tengono azioni volte a mettere all’attenzione pubblica l’emergenza dei cambiamenti climatici, e chiedere ai leader mondali di adottare soluzioni concrete e sostenibili per contrastarla. Promotori dell’evento Greenpeace e il social network tcktcktck (http://tcktcktck.org). La modalità è il freeze mob, una variante del più comune flash mob: punta a coinvolgere il massimo numero di persone congelandole per alcuni istanti. Oggi, a tutti i partecipanti è chiesto di portare con sé una maschera subacquea al fine di rendere visibile il drammatico scenario futuro potenzialmente disegnato dalla crisi climatica, da indossare immobilizzandosi per due minuti e mezzo dopo un segnale sonoro che apre e chiude l’azione). 

Il giorno dopo, basta leggere sul sito del social network qualche cifra della mobilitazione globale contro l’emergenza climatica per intuire che qualcosa, forse, sta davvero succedendo. Più indecifrabile, perché globale. 7014 eventi in 188 Paesi. 30.000 studenti di 200 università in Cina – un numero incredibile – impegnati nella Grande Iniziativa Verde, la più grande azione di mobilitazione giovanile nella storia cinese! Al tramonto del sole sul Pacifico, si stima che siano stati piantati 100.000 alberi, centinaia di abitazioni ed edifici siano stati climatizzati, 500 miglia di coste siano state ripulite dai rifiuti. Ci mancano ancora i termini giusti per questa narrativa de-territorializzata dell’azione politica, non priva di limiti, ma dotata di una dimensione comunicativa preponderante. Come afferma Yochai Benkler, il fatto che oggi così tanta gente possa interagire e che si stia raccogliendo in reti di citazione reciproca fa sì che per ogni individuo sia più facile, e possibile, farsi ascoltare ed entrare in una vera conversazione pubblica. Il messaggio globale dei cittadini che si sono rimboccati le maniche per costruire un mondo più pulito è inequivocabile. Una testimonianza vigorosa, che conferisce ulteriore legittimità alla richiesta rivolta ai governi di fare lo stesso. 

 

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