Partecipazione informatica
Per quanto riguarda la mia esperienza, la partecipazione alla Rete Civica di Milano e ai suoi gruppi di discussione ha costituito uno spazio di confronto propedeutico all’incontro diretto per trattare le questioni della vita nella città. Questa frequentazione mi ha consentito di riconoscere la rete digitale interattiva come un ecosistema cognitivo, la cui natura è virale piuttosto che virtuale.
Oggi è possibile mettere in rete esperienze di informazione partecipata, come quella a cui hanno dato vita la Rete Civica di Milano e l’Associazione dei Commercianti di Porta Genova, una piattaforma web per l’urbanistica partecipata tramite la quale i cittadini accedono a informazioni e possono condividere proposte relative sul possibile futuro del manufatto architettonico della stazione di P.ta Genova. Un modello decisamente replicabile, persino espandibile. Dalle pratiche di partecipazione informata scaturisce una graduale ma inevitabile responsabilizzazione dei cittadini, il che rappresenta un mutamento di cultura civile potenzialmente in grado di sostituire la moltitudine indifferente e impaurita, ovvero la massa affetta dalla vecchia sindrome di NIMBY, Not In My Backyard. Tutto, purché non avvenga nel mio cortile. La diffusione condivisa di queste piattaforme costringerà la politica pubblica a promuovere nuove dinamiche di partecipazione allargata e consapevole, ed effettive forme di sussidiarietà istituzionale e sociale.
Sorelle, non rivali
Chi risulta insofferente alla cultura del rischio e alla pratica della reinvenzione, al fine di rispondere e adeguarsi alle sfide del nostro tempo, è proprio la politica organizzata. Tanto nelle modalità di rappresentanza partitica e istituzionale, quanto nelle forme costituzionali che danno corpo al Patto Sociale attraverso il rapporto cittadini/istituzioni. La politica organizzata è il fattore di auto-conservazione più prepotente oggi in campo, a fronte delle nuove sollecitazioni della società globale digitalizzata e interattiva. I gruppi dirigenti si avvalgono di un potere di cooptazione, che risulta così essere l’unico criterio di selezione dei quadri politici, sia partitici che elettivi. In una società complessa, diffusa, nel tempo post-ideologico, è la natura del processo sociale di produzione di senso a definire la cifra politica. Tanto più un processo di partecipazione sarà aperto, quindi senza alternative precostituite, inclusivo, informato e quindi consapevole, tanto più alta e adeguata alle sfide sarà la sua qualità politica.
La rete non è la virtualità sostitutiva e contrapposta ai luoghi di partecipazione; ne costituisce, invece, una complementarietà. La partecipazione informata in rete è una partecipazione diretta. Essa costituisce il presupposto di ridefinizione del significato, delle forme e dei luoghi nei processi di decisione politica: sia nella scelta dei fondamenti valoriali, sia nella definizione degli indirizzi programmatici, sia anche nella selezione dei candidati e dei leader. Stefano Rodotà ha più volte proposto di guardare a internet come al più ampio spazio pubblico che l’umanità abbia fino a ora conosciuto. Uno spazio che non è naturalmente libero. Da qui scaturisce la proposta di definire una Carta dei Diritti di internet, un “Internet Bill of Rights”: un processo aperto di armonizzazione dei diritti internazionali e locali già costituiti, capace di utilizzare tutte le potenzialità partecipative – a più livelli e a più attori – di cui è strutturata la Rete. Una partecipazione informata e consapevole presuppone, infatti, libertà di accesso alla rete e ai suoi contenuti, libertà di conoscenza e uso degli alfabeti e delle grammatiche digitali, libertà di espressione e di parola. Se consideriamo la conoscenza e la sua condivisione interattiva come un Bene Comune, questi presupposti devono diventare diritti.
I social network, le piattaforme di relazione interattiva per la produzione e la condivisione di conoscenza, costituiscono oggi l’evidenza palmare che questo spazio pubblico si estende soprattutto in termini qualitativi: non conosce confini, gerarchie, intermediazioni, scarsità, salvo quelli imposti per via normativa e tecnologica.
Non si tratta soltanto della produzione di contenuti da parte degli utenti: stiamo partecipando a una impresa cognitiva collettiva che conosce forme collaborative per la produzione di valore e genera una nuova accezione di opinione pubblica avvertita, perché legata a un protagonismo informato e consapevole.
La proposta lanciata dalla rivista Wired (www.wired.it) di candidare internet per il prossimo premio Nobel per la Pace, riflette questa consapevolezza. Internet non è una rete di computer, ma un intreccio infinito di persone, insomma un’arma di costruzione di massa. Si legge nel manifesto dell’iniziativa, al sito web dedicato www.internetforpeace.org: “La cultura digitale ha creato le fondamenta per una nuova civiltà. E questa civiltà sta costruendo la dialettica, il confronto e la solidarietà attraverso la comunicazione. Perché da sempre la democrazia germoglia dove c’è accoglienza, ascolto, scambio e condivisione. E da sempre l’incontro con l’altro è l’antidoto più efficace all’odio e al conflitto”. Per questo la disputa “Google-Cina” (scoppiata a inizio del 2010 a causa dell’acquiescenza con cui Google aveva accettato le intrusioni della censura governativa in Cina, salvo poi mutare strategia sulla scorta delle dure critiche ricevute dagli attivisti dei diritti umani, fino a minacciare di lasciare il Paese, non senza aver nel frattempo stornato i clienti cinesi verso un altro motore di ricerca senza censura ad Hong Kong, ndr) fa emergere una questione che non è relativizzabile al filtraggio di parole quali democrazia, libertà, partecipazione, da parte delle autorità cinesi.
La natura pervasiva della tracciabilità digitale e l’utilizzo della semantica consentono, anche qui in Occidente, la definizione dei profili degli utenti e la possibilità di previsione dei loro comportamenti, come consumatori e come elettori. In relazione a questa possibilità, dunque, la definizione e la gestione della propria identità diventano un diritto che richiede l’estensione della privacy a comune denominatore della relazione sociale nell’era digitale.
In Italia la subordinazione e la riduzione alla dimensione broadcasting televisiva dell’ecosistema costituito dalla relazione sociale interattiva spiega il mancato investimento nella infrastruttura di banda larga e il tentativo di controllo delle video/voci su internet, equiparate ai giornali. Non si tratta soltanto dell’ennesima esplicitazione di un conflitto di interessi, che tutto riduce a sé. Si tratta, ancora più in profondità, di ignoranza digitale, di divario culturale. Fattori strutturali che portano i politici a utilizzare la rete come vetrina (vedi taluni blog di parlamentari), senza attraversarla e senza farsi attraversare dai suoi processi partecipativi.
L’esperienza di Barak Obama, che con capacità di innovazione ha fatto di sé una piattaforma di partecipazione programmatica durante le primarie e dopo l’elezione presidenziale negli Stati Uniti, viene prudentemente confinata oltreoceano. Eppure, rivolgendo lo sguardo al mondo della società civile, non mancano anche qui da noi esperienze interessanti, le quali utilizzano una cultura relazionale reticolare come quella dei Gruppi di Acquisto Solidale e dei mercati cittadini a Km zero.
Questo è il WEB 2.0: L’alleanza tra esperienze della sfera biologica e quelle della sfera antropologica che può contribuire alla definizione della consapevolezza degli attori della società della conoscenza perché si vivano come blocco sociale dell’innovazione qualitativa, capace di definire i beni comuni come diritti fondamentali e di confliggere per affermarli.
Per una realtà a partecipazione plurima (o cosiddetta “multi-stakeholder”), che sia in grado di vivere e di gestire un’ecologia delle differenze, l’accezione gramsciana si rivela vitale e molto più calzante di quella di “classe creativa” proposta dall’economista Richard Florida.