Obiettare di nuovo?
L’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio – prescindendo dagli opportunismi di chi la usava per evitare la perdita di un anno di studio o di inserimento lavorativo – non è stata una pratica antimilitarista anarcoide: rappresentava la coerenza con una filosofia di vita nonviolenta.
Non è diventato convincimento comune che questa scelta radicale nulla avesse a che fare con altre pratiche che sono venute manifestandosi nel tempo, neppure con l’obiezione alle spese militari o con l’aborto. Infatti, la contestazione alla formazione del bilancio generale dello Stato consente dichiarazioni formali di scelte diverse, mentre non è obbligatorio lavorare nelle strutture del Servizio Sanitario che applicano la legge sull’interruzione volontaria di maternità. E, in ogni caso, le leggi sono riformabili, mentre la Costituzione è norma fondamentale.
Le lotte dei giovani degli anni Sessanta, di un Pietro Pinna per esempio, non interferivano con i modi critici con cui il cittadino può reagire all’emanazione di leggi non compatibili con le convinzioni etiche. Si ribellavano all’imposizione vincolante di una norma costituzionale: l’obbligo inesorabile del servizio militare come “sacro dovere” di difesa della patria. In altri Paesi l’obiezione alla difesa armata era prevista dalla Costituzione e in Germania la responsabilità della seconda guerra mondiale comportò un atteggiamento dei costituenti diverso da quello degli italiani, usciti da partiti che, tutti, avevano partecipato alla Resistenza armata. Con il trascorrere degli anni a schiere di giovani, laici e cristiani, via via crescenti, l’art. 52 – quello dell’obbligo della difesa – appariva in qualche modo incompatibile con il ripudio della guerra dell’art. 11.
Quei contestatori ponevano, dunque, una questione di civiltà e appaiono ancora incomprensibili le resistenze dei governi e dei ministri democristiani dell’epoca – e perfino di un presidente della Repubblica (Cossiga) – ad accogliere un principio assolutamente coerente con l’etica cattolica.
Eppure furono gli stessi cappellani militari a portare in tribunale don Milani e p. Balducci per il senso, a loro giudizio, sacrale di un patriottismo che faceva dell’obiettore un vile che rifiutava la formazione, virile e cristiana autentica, nell’esplicazione del dovere militare e nella lealtà all’ordine costituito.
Anche la sinistra, in genere, non aveva indulgenze per un servizio che diventava sempre più discutibile e per questo, non per un superiore valore morale, avanzò qualche timida proposta di riforma. Tuttavia il numero crescente dei giovani processati e incarcerati produsse sia la legge di attuazione del servizio civile sostitutivo (punitivo per l’aggiunta di mesi compensativi, come se uno dovesse pagare lo scotto di volere a tutti i costi, almeno simbolicamente, per un suo atto libero, un mondo senza guerre), sia la successiva riforma; ma fu soprattutto la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza che equiparava il servizio militare a quello civile, a dare una svolta alla più autentica concezione giuridica dell’obiezione e al rinnovamento del costume.
Militari professionisti
In tempi più recenti la riforma che ha istituito la professionalità militare volontaria ha di fatto posto fine anche alla scelta di obiettare. Ma non ha cancellato il giuramento di fedeltà e, sostanzialmente, neppure il testo della Costituzione che potrebbe – in malaugurate circostanze – essere ricondotto alla lettura antica. Soprattutto consente di dimenticare che il nuovo può riproporre ad altri livelli i valori antichi, se di valori si tratta. Oggi conosciamo le conseguenze che dall’universo militare ricadono sul civile: risorse investite in armamenti e stornate dal vivere decente e dalla salute di tutti, il nucleare dei grandi arsenali strategici in graduale smantellamento perché autodistruttivo e superato, rovesciamento degli obiettivi con massacri di popolazioni civili superiori alle perdite militari, innovazione tecnologica prima negli arsenali che nell’industria civile... Basterebbe la considerazione simbolica dell’invenzione dei “droni”, gli aerei automatizzati, senza pilota, comandati a terra da un militare che, come il bambino che gioca con la playstation, premendo un tasto uccide senza sporcarsi la coscienza. Quando sarà operante il robot-soldato, non sarà finito il tempo del tradizionale “soldato robot” esecutore di ordini a comando, anche se qualunque idea di eroismo sarà entrata definitivamente in crisi.
Ai tempi dell’OdC e nel Sessantotto si ragionava sul danno della cosiddetta disciplina militare a cui erano sottoposti tutti i maschi adulti e sul senso dell’obbedienza alle autorità. Oggi non sembra facile riprendere il ragionamento, anche se una diversa alienazione ci rende violenti lasciandoci incolpevoli.
L’obiezione di coscienza
I nonviolenti debbono domandarsi se non sia giunto il tempo di proporre, ai militari di professione, l’estensione della dissociazione individuale da ogni tipo di violenza imposta per obbedienza giurata. Anche in democrazia possono essere emanate disposizioni inique da eseguire, piaccia o non piaccia: lo dimostra la normativa italiana che ha reso l’immigrazione un reato contro i principi del diritto costituzionale, della dichiarazione universale dei diritti umani e delle convenzioni sull’asilo. La nostra Marina e la Guardia di Finanza hanno eseguito ed eseguiranno operazioni di guerra nei confronti di esseri umani, uomini, donne, bambini, che, inermi, chiedono aiuto nel bisogno e nel pericolo estremo in mare. Altri vengono imbarcati sugli aerei e respinti ai Paesi di provenienza senza considerare se sono esponenti politici o parenti di democratici ostili alle dittature locali o donne che hanno subito violenza, nonostante chiedano l’asilo di cui parla l’art.10 della nostra Costituzione. I militari professionisti non sono tutti disumani e si suppone si sentano costretti ad agire contro coscienza solo “per obbedienza”.
Per questo credo che si debba riprendere a ragionare sulla “coscienza” dei militari che sentono sulla propria pelle il disagio e la difficoltà di dover “essere cattivi” (come dice il ministro Maroni) nelle operazioni di respingimento: anche al militare professionista deve essere riconosciuto formalmente il diritto di rifiutarsi di eseguire ordini contrari ai diritti umani internazionalmente protetti.
In Israele i “refusenik” hanno sfidato il carcere per non distruggere le case dei palestinesi e commettere atti di devastazione disumana. Forse è tempo che qualche parlamentare, che eventualmente sia stato obiettore o che si consideri nonviolento/a, avanzi una proposta di legge al riguardo. Ma soprattutto è tempo che a tutti i livelli gli italiani e le italiane pensino alla coscienza con cui, se restano nella passività, si fanno complici della violenza inutile delle “loro” istituzioni.
Tanto più che, mentre in Inghilterra, per tutelare gli adolescenti dallo sbandamento, il governo propone dei “campus” di studio e di servizio civile durante le vacanze estive, il nostro ministro della Difesa Ignazio La Russa ha inserito nella manovra economica una sorta di mini-leva: stages per 4.000 giovani (“balilla e avanguardisti”?) selezionati da personale dell’esercito per invogliarli alla vita militare. Fortunatamente gli stessi militari, soggetti a drastiche riduzioni di finanziamenti, non intendono fare baliatico a spese del proprio impoverimento.