CHIESA

Il Concilio che verrà

Uno sguardo all’evento che ha rappresentato il volto di una Chiesa umana, solidale, aperta, proiettata nel futuro. Quel guizzo di rinnovamento che attende ancora una sua attuazione.
Luigi Bettazzi (Presidente del Centro Studi Economico-Sociali per la Pace – Pax Christi )

Una delle domande che mi sento fare, quando giro per l’Italia a parlare del Concilio Vaticano II come uno degli ultimi superstiti membri, è se il Concilio è già stato attuato o sia stato bloccato, o quantomeno sia finito per esaurimento. E rispondo con la frase classica: “Già e non ancora!”.

In verità – anche solo rifacendoci alle quattro Costituzioni (che sono i Documenti principali di questo Concilio, come di ogni Concilio) – la Bibbia è uscita da quella specie di diffidenza da cui era prima circondata (per lasciarla al magistero, o agli studiosi, o...ai protestanti), la Liturgia è compresa e seguita dai fedeli, la Chiesa si presenta maggiormente con l’immagine della comunione, e le “realtà naturali” non sono più contrapposte radicalmente a quelle “soprannaturali” e quindi quasi condannate in partenza come realtà da evitare o con cui non contaminarsi. Se poi pensiamo, ad esempio, allo sviluppo del dialogo ecumenico e all’avvio del dialogo interreligioso, o alla rivalutazione della coscienza e alla qualificazione della libertà religiosa, dobbiamo davvero riconoscere che si è realizzato l’“aggiornamento” proposto da papa Giovanni nell’indire il Concilio, cioè il modo più consono alla mentalità odierna per esprimere la verità di sempre, anche recuperando antiche prospettive accantonate per successive modalità culturali.

Se guardiamo, però, alle possibilità che questo aggiornamento avrebbe consentito, dobbiamo davvero ammettere il “non ancora”. Perché non è facile rinnovare una mentalità che potremmo indicare come “giuridica”, che determina cioè in forma descrittiva le posizioni raggiunte escludendo quanto non rientra nelle formule consolidate, per partire invece dalla mentalità della gente e portarla ad accogliere e a vivere le verità della fede. È la distinzione invocata dallo stesso papa Giovanni quando proponeva un Concilio non “dogmatico”, ma “pastorale”; il che significava, non come troppi poi l’hanno inteso, quasi una raccolta di norme d’azione che prescinda dai “dogmi” (e che, quindi, possa venire tranquillamente disattesa), bensì che non aveva l’intento di definire “dogmi”, scomunicando (“anathema sit”) chi non li accogliesse, magari perché non li ha capiti, con l’intento appunto di dialogare con gli uomini d’oggi, nella loro cultura e nella loro mentalità, per portarli e convincerli alla coerenza pratica della loro professione di fede cristiana.

L’impressione, infatti, è che non sempre si ponga il cristiano di fronte alla Parola di Dio come al dialogo attuale che Dio sta rivolgendo ad ogni cristiano in attesa del “sì” della sua fede; e forse è vero che, di fronte alla difficoltà di entrare nel linguaggio con cui Dio parla agli uomini (di cui la Bibbia è la grammatica e rivela la logica), sembra ancora più semplice vederla come un “deposito” da cui ricavare le frasi o i brani che servono a dar valore alle imposizioni della gerarchia, magari esposte come “progetti culturali”.

E anche la Liturgia stenta a essere vista come la preghiera che deve investire ed esprimere l’atteggiamento del popolo di Dio, anzi, come la preghiera stessa di Cristo, cioè la presenza di Cristo che è preghiera in atto, a cui il popolo di Dio si unisce, per la grazia dello Spirito Santo che viene ravvivata e che ci permetterà poi di vivere una vita pienamente cristiana, quindi pienamente umana.

Per la salvezza di tutti 

Forse è sulle altre due Costituzioni che si notano maggiori esitazioni o difficoltà, per quelle che qualcuno ha indicato come “rivoluzioni copernicane” (Copernico fece sì che quello che prima si riteneva centrale fosse poi riconosciuto come subordinato, e viceversa), mentre in realtà si è trattato di ricupero o di legittimo sviluppo di visuali antiche. S’è compreso che l’antico detto “extra Ecclesiam nulla salus” non poteva essere inteso – anche sulla base di una lettura più attenta della Parola di Dio – come l’esclusione dalla salvezza di quanti non fan parte della Chiesa visibile (tanto più della Chiesa cattolica-romana), e ne ha data esplicita conferma papa Benedetto XVI sottoscrivendo (gennaio 2007) il documento della Commissione teologica internazionale che vede il limbo come un espediente culturale per non condannare all’inferno i neonati non battezzati. E, dunque, non si può più pensare a un’umanità subordinata alla Chiesa, bensì alla Chiesa al servizio dell’umanità, con tutte le conseguenze che questo capovolgimento di visuale comporta. E questo spiega perché il Concilio abbia dedicato il suo documento più lungo proprio alla riflessione su “La Chiesa nel mondo contemporaneo”, e non per farlo cristiano (questo è casomai l’intento del decreto “Ad gentes”, su “le missioni”) ma per aiutarlo a essere più umano, certo con le prospettive suggerite dalla fede, ma soprattutto con la coerenza del comportamento dei cristiani.

E questo non può non influire sull’altra “rivoluzione copernicana” (chiedo scusa: sull’altro recupero) di una Chiesa non più vista come il monopolio della salvezza, bensì come “sacramento”, cioè “segno sensibile e strumento efficace” della salvezza portata in Cristo da Dio, che “ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito... e non per condannarlo, ma per salvarlo” (Gv 3, 16). È evidente che in questo compito un ruolo particolare incombe sui fedeli, chiamati per la loro condizione familiare e la loro attività professionale a essere parte costitutiva dell’umanità, di cui devono costituire il fermento, sollecitando la gerarchia a svolgere il suo compito specifico, che è quello di garantire l’annuncio adeguato della Parola di Dio e la presenza viva e operante di Cristo nella liturgia assicurando la “comunione” dei fedeli, garanzia della retta accoglienza della Parola e dell’attività sacramentale di Gesù Cristo. Questa fu l’esplicita volontà dei Padri conciliari: posti di fronte a un documento che, dopo la presentazione generale della Chiesa, proseguiva col tema della gerarchia, cui seguiva quello dei fedeli, vollero invece a stragrande maggioranza che, dopo la trattazione del “mistero” della Chiesa, seguisse quella del “popolo di Dio” – che è, in ciascuno dei suoi membri, un vero “altro Cristo” – seguito da quella sulla gerarchia, che verifica così il suo compito di “ministero”, cioè di servizio.

Comunione vera

Il compito della Chiesa, sacramento di Cristo e quindi fermento del regno di Dio – cioè di piena e perfetta umanità nella storia – in un mondo frammentato dall’individualismo del peccato d’origine (dell’origine di tutti i peccati!), sarà proprio quello di annunciare la comunione, cioè l’amore e la solidarietà tra tutte le persone umane, ma prima ancora di viverla all’interno, a tutti i livelli, dalla “collegialità” dei vescovi col papa e tra di loro, fino a una concreta partecipazione di tutti i cristiani (gerarchia e laicato) nella vita della Chiesa e nella gestione delle attività ecclesiali. Ed è qui, dove forse ancora è più lento il cammino dell’aggiornamento, dal Sinodo dei vescovi, che ha troppo evidente il carattere di libera consultazione (ed è sintomatico che papa Benedetto abbia resa “libera” la discussione dell’ultima ora di ogni giornata) ai Consigli pastorali, interpellati solitamente per questioni del tutto marginali (sperando non siano molti i preti con la mentalità di quello che, richiesto perché non avesse istituito il Consiglio pastorale, rispondeva candidamente: “So sbagliare da solo e faccio più in fretta!”).

Forse le vicende immediate del dopo Concilio, come i fermenti sconvolgenti del Sessanta- Sessantanove, possono aver indotto a bloccare l’aggiornamento al minimo giuridico; anche se il rischio è quello – per esprimerlo con un detto tedesco – di “buttare via, insieme all’acqua sporca, anche il bambino!”. Credo che ogni cristiano – certo a incominciare dalla gerarchia nei corrispondenti livelli, ma poi ogni battezzato e cresimato nei propri ambiti e secondo le proprie capacità – dovrà sentire la responsabilità di recuperare la grazia elargita dallo Spirito nel Concilio, perché quei fermenti possano svilupparsi, allontanando la tentazione di chiudersi nel passato (la “tradizione” non si identifica col bloccare. Deriva da “tradere”, che invita a trasmettere la verità di Dio all’umanità di oggi, come ieri venne trasmessa all’umanità di quel tempo), con lo spirito creatore, partecipazione dello Spirito Santo, cosicché via via il “non ancora” diventi “già”.

 

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