SCUOLA

Libro e moschetto

“Allenati per la vita”. Ma imparando a sparare. Giovani, scuola e cultura di guerra.
Indotta dalle istituzioni. E chi volesse obiettare?
Luca Kocci (Insegnante, redattore dell’agenzia di informazioni Adista)

Ottanta anni fa, in pieno ventennio fascista, si sarebbe detto “libro e moschetto”. Oggi, con un nome forse più politically correct ma non certo meno impegnativo, si chiama “Allenati per la vita”. La sostanza, però, è la stessa: la cultura militare a scuola.
Si tratta di un Protocollo d’intesa tra il Comando militare esercito Lombardia e l’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia sottoscritto lo scorso 20 settembre – e benedetto dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e della Difesa Ignazio La Russa – che porta i soldati direttamente in cattedra a insegnare la vita militare agli studenti delle scuole superiori. Ovviamente, recita il Protocollo, nell’ambito della “sperimentazione dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione” (da cui forse, però, è stato cassato l’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”) e prestando “particolare attenzione ai diritti e ai doveri del cittadino” e alla diffusione della “cultura della legalità”.
Concretamente sarà un mini-corso di vita e cultura militare (con materie come armi e tiro, topografia e orientamento, sopravvivenza in ambienti ostili, difesa nucleare, chimica e batteriologica), proposto a tutti gli alunni delle scuole superiori lombarde, per un massimo di un migliaio di partecipanti, valido come credito formativo per l’Esame di Stato, che si concluderà con una gara tra “pattuglie di studenti”. Come docenti un centinaio di soldati dell’Unione nazionale ufficiali in congedo (Unuci). Proclama il pieghevole propagandistico inviato alle scuole: “Vivere questo momento come stimolo per toccare con mano i valori della lealtà, dello spirito di corpo e di squadra, oltre ad acquisire senso di responsabilità e rispetto delle regole e dei principali valori della vita”.
Un’iniziativa “altamente dannosa perché estranea alla finalità della scuola”, commenta Pax Christi. “Siamo di fronte a una novità pericolosa, antiformativa e antipedagogica. Insegnare-imparare a sparare non è compito della scuola della Repubblica italiana dove risplende l’articolo 11 della Costituzione”. “Chi lotta contro la piaga dei bambini soldato nei Paesi in guerra non può accettare la nascita, a casa propria, degli ‘studenti guerrieri’ – prosegue Pax Christi. Chi vuole contrastare il bullismo non può pensare di farlo in modo paramilitare. Nel clima attuale, basato sul governo della paura, tali progetti possono solo diffondere l’idea della violenza armata come strumento normale di soluzione dei conflitti”, consolidare “l’idea del nemico da eliminare”, convincere “molti a farsi legge da sé” e “a praticare la legge del più forte”. Invece, “in molti luoghi la scuola è e può essere ancora laboratorio di pace dove è possibile esplorare le mappe della nonviolenza, accostare volti ed esperienze, organizzare iniziative di solidarietà o riflessioni operative su bambini soldato, infanzia negata, dignità della donna, pena di morte, guerre dimenticate, mine antipersona, disarmo chimico o nucleare, malattie e accesso ai farmaci, immigrazione, diritto internazionale, acqua bene comune, commercio equo e solidale, sobrietà e nuovi stili di vita. Il compito di una scuola seria e serena è quello di educarci alla pace come costruzione di una vita bella e buona, ricca di amicizie e di relazioni, animata dalla fresca energia della nonviolenza, aperta alla speranza. Non ci può essere futuro senza educazione alla pace”.

UNA NOVITÀ?
Su una cosa però ha ragione il ministero dell’Istruzione, che ha subito reagito alle polemiche e ai commenti fioccati sulla stampa – dai grandi quotidiani nazionali fino a Famiglia Cristiana, che per prima ha dato la notizia –: non si tratta di una novità, perché il progetto è giunto alla sua quarta edizione. E soprattutto non è una novità che da anni, perlomeno da quando è stata “sospesa” la leva obbligatoria ed è nato l’esercito dei professionisti, le Forze armate conducono una lenta ma progressiva azione di penetrazione nelle scuole per reclutare giovani in grigioverde, sul modello dell’esercito Usa, dove da tempo i recruiters battono le aule, i college e le università alla ricerca di aspiranti soldati, puntando particolarmente sugli adolescenti e i giovani delle minoranze etniche, delle classi più povere, delle aree rurali e dei ghetti metropolitani che hanno minori possibilità di proseguire il percorso di formazione che avranno più difficoltà a trovare un impiego.
Uno dei primi Protocolli d’intesa fra militari e scuole risale infatti al 2004, fra l’Ufficio scolastico regionale del Piemonte e il Comando reclutamento e forze di completamento interregionale nord: i soldati entrano nelle aule per “condurre attività informative e promozionali delle figure professionali delle Forze armate, dei bandi di concorso, delle varie attività culturali locali”. E poi, sempre nel 2004, fra la Provincia di Caserta e il Distretto militare della città campana per realizzare nelle scuole superiori una serie di iniziative “finalizzate alla promozione e alla divulgazione delle opportunità occupazionali previste dalla legge n. 226 del 2004”, cioè il provvedimento che fissò al 1 gennaio 2005 la sospensione della leva obbligatoria e, contestualmente, istituì i “volontari in ferma prefissata” (vfp) per un anno o per quattro anni nell’Esercito, nella Marina e nell’Aeronautica. Iniziative di grande successo, moltiplicate nel resto d’Italia, tanto che gli ufficiali affermano con sicurezza che ormai il principale bacino di reclutamento delle Forze armate sono proprio le scuole superiori, soprattutto in tempi di crisi in cui il miraggio del “posto fisso” sembra essere l’arma migliore per convincere adolescenti e giovani con un futuro da disoccupati o da precari a indossare la divisa; e la prospettiva uno stipendio iniziale di circa 800 euro (più vitto e alloggio), che diventano 900 con la prima nomina a caporale e salgono a 1.200 una volta in servizio permanente, più la possibilità di partecipare a missioni fuori area, rischiose ma redditizie. E non è un caso, infatti, che il 70% delle domande arrivi da giovani di 20-21 anni, delle regioni meridionali – dove maggiore è il tasso di disoccupazione –, il 20% del centro e appena il 10% del nord.
Ma non c’è solo l’orientamento, perché da anni nelle scuole si svolgono dei training di addestramento militare per studenti. A iniziare, nel 2005, una scuola privata bresciana – l’allora Istituto tecnico per geometri “Bianchi” –, poi, a seguire, le altre, in Lombardia e in molte altre parti d’Italia: per qualche mezza giornata studenti e studentesse mettono da parte libri e quaderni e imparano a fare la guerra con una serie di prove come il tiro a segno, la mappatura del territorio, lo sminamento, il pronto soccorso, ecc. Il training day è ufficialmente solo un gioco dove si indossa la divisa per un giorno, commentano i militari, ma magari domani qualche ragazzo potrà decidere di arruolarsi sul serio.
L’ultima invenzione è del ministro La Russa, forse nostalgico dei “campi hobbit” di rautiana memoria, e risale a questa estate: una mini-naja di tre settimane per giovani dai 18 ai 25 anni. Non si è svolta nelle scuole – ma nelle caserme degli alpini di Brunico e Dobbiaco, in Alto Adige – ma una buona parte dei 150 partecipanti arrivava proprio dalle scuole superiori. Venti giorni di vita ed esercitazioni militari al termine dei quali, chi ha voluto, si è portato a casa per ricordo la divisa e gli accessori. Programma già approvato dal governo per i prossimi tre anni. I costi: 20 milioni di euro, proprio mentre alla scuola statale, in tre anni, sono stati tagliati 8 miliardi di euro.

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