Libera parola
Leggo da bastian contrario la parabola dei tre che un giorno si trovarono nelle mani una somma di denaro da capogiro, una cifra smisurata, solo che si pensi che un talento in quei tempi corrispondeva verosimilmente alla paga di sudore di anni di dura fatica. Uno di loro di talenti se ne trovò tra le mani cinque, uno tre, il terzo un talento, e non era poco! Il loro signore era in partenza per un viaggio, consegnava alla fantasia delle loro mani una parte ingente dei suoi beni. Era uno che credeva nelle loro capacità. Così è Dio. È un generoso, ha fiducia. Non è di quelli che ti stanno con il fiato sul collo, con mille controlli, non è della razza sospettosa dei sorveglianti, lui se ne va, si fida. Vuole che, se tu ti dai da fare, non sia per occhi di padrone, ma per risposta a una fiducia.
Sappiamo anche che per i primi due quella fiducia fu come spinta di vento nelle vele di una barca. Il loro signore al ritorno li vide arrivare con un lago di gioia negli occhi, tenevano in mano l’attestato di un raddoppio dei talenti. E, come fossero riusciti a tanto, forse non sarebbe stato facile nemmeno per loro spiegare. Che poi il loro signore fosse un generoso ne ebbero la riprova appena lo sentirono reagire: non solo non esigeva il ritorno dei talenti, anzi li faceva partecipi della gestione del suo patrimonio. E non solo del patrimonio, anche della sua gioia. Ognuno dei due se lo sentì dire, le parole erano queste: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Quelle parole cantavano nell’anima. C’era da stropicciarsi gli occhi. Così fa Dio.
Ma il terzo? Lo videro quello stesso giorno arrivare senza festa, aveva un lago buio negli occhi. Quando prese a parlare si accorse che le parole gli uscivano come legate e precipitose insieme, aspre, aspre come il cuore che gli martellava dentro, disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. Ecco ciò che è tuo!”.
Ho letto la parabola e ti confesso che mi sono fermato qui, come ci fosse un inciampo di dolore. Quasi non mi interessasse, più di tanto, proseguire. Da un lato misuravo la ferita, la ferita di quel signore – già, tu lo sai, le parole a volte sono lama e nemmeno immagini dove fanno strazio. Erano parole che rovesciavano impudenti l’immagine, quella del signore della parabola e quella di Dio. E tu ci rimani male, male da morire quando rovesciata è la tua immagine, con un’accusa di durezza. Dio uomo duro?
Ma a fermarmi nella lettura, ti dirò, anche le parole a seguire: “Ho avuto paura, sono andato a nascondere sotto terra…”. Mi riportavano d’istinto ad altre parole, quelle delle origini, quelle di Adamo di risposta a Dio quando lui e la sua donna udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gn 3, 8). Sorprendenti assonanze. “Ho avuto paura e mi sono nascosto”. “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra”. La paura che ci fa nascondere, la paura che fa nascondere i talenti! La paura fa nascondere sotterra la nostra intelligenza. Quasi fosse attentato all’umiltà o arroganza dello spirito il pensare con la propria testa.
Non è in cielo
Qualcuno di noi forse ricorda che don Primo Mazzolari era solito dire che rimettersi totalmente, ciecamente a un uomo, per autorevole che fosse, era come dimettersi da uomo. E agli uomini della sua parrocchia puntualmente ricordava: “Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa”.
Togliersi la testa, o per paura di pensare o per fatica di pensare, non è fare opera gradita a Dio, che ha fatto dono dell’intelligenza ai suoi figli.
In un midrash della letteratura rabbinica si narra di alcuni rabbini che un giorno si misero a disputare accesamente su un punto della legge. Rabbi Eliezer produsse argomenti possibili per dimostrare il suo punto di vista. Ma gli altri rabbini non si lasciavano convincere dagli argomenti di Rabbi Eliezer. Alla fine una voce celeste sembrò confermare il pensiero di Rabbi Eliezer. Ma Rabbi Joshua subito esclamò: “Non è in cielo”. Che cosa significava quella citazione del Deuteronomio “non è in cielo”? Rabbi Jirmijah spiegò: “La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che continuiamo a occuparci di voci celesti: la Torah del Sinai contiene già il principio che decisivo è il voto della maggioranza”.
Il midrash sulla accesa disputa tra rabbini si conclude raccontando che quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta Elia. E gli domandò che cosa avesse fatto Dio in quel momento. Il profeta rispose: “Dio ha sorriso e ha detto: I miei figli mi hanno superato! I miei figli mi hanno superato!”.
Che il Dio della Bibbia abbia il volto del Dio che sorride per i figli, per i figli che mettono in campo tutta la loro arte di interrogare e di interrogarsi, e non per i figli che sonnecchiano pigri accettando tutto passivamente, è buona notizia. È notizia di un Dio che onora ed è onorato dall’intelligenza, un’intelligenza che è incantamento davanti al mistero, che è la gioia di dare un nome alle cose, ma nello stesso tempo di percepire quel nome “relativo”, segnato da una povera misura e subito ricorrere a un altro nome e a un altro ancora, in una ricerca inesausta.
Oltre le ombre
Oggi tra i lamenti che succede sempre più spesso di ascoltare c’è pure il risentimento contro una stagione come la nostra, in cui verità che sembravano assolute, indubitabili, immobili, agli occhi di molti non appaiono più tali e ciò crea in non pochi una sorta di spaesamento. Mi chiedo se, anziché allungare la serie delle lamentazioni sulla nequizia dei tempi, non potremmo riconoscere in questa nuova situazione quasi un’opportunità per il nostro essere credenti: sbenda la tua intelligenza! Sbendala, secondo l’ammonimento poco ricordato, quasi cancellato, di Gesù che invitava pressantemente a mettere in gioco tutta la nostra intelligenza, la capacità di ragionare con la propria testa, lontani da ogni pur velata forma di resa e di delega. Quel giorno alle folle, e dunque a tutti, diceva: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12, 56-57). Da voi stessi.
Non perdiamo tempo a fare lamento sulla notte e sulle ombre. Sarò un bastian contrario, ma mi è cara questa dimensione umbratile della vita e vorrei pregare Dio che me ne lasciasse una qualche misura, anche nell’al di là.
Ricordo che in un vespero, in faccia a monti che amo, stupito dal lento intenerirsi del cielo, mi venne di pregare:
“E se sarà un giorno
luce piena nel tuo regno,
non negare, o Dio,
a questi poveri occhi
il crepitare segreto
delle ombre.
Abito città
dove il sole
è sempre già alto”.
Anche la notte non è immobile, anche le ombre non sono ferme. Può sembrare un pensiero bizzarro, ma forse non lo è del tutto se il cardinale Martini, nella prefazione al suo libro-intervista “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, riferendosi al fatto che quelle conversazioni tennero le ore della notte, dice: “di notte le idee nascono più facilmente che nella razionalità del giorno”. Capite, notte come grembo. Grembo dice nascita, dice vita, e non stanca ripetizione.
Perché non avere occhi, dunque, per il crepitare segreto delle cose? È vero, forse si era più tranquilli quando ci si chiudeva in una stanza, la nostra, e si pensava che il cielo fosse contenuto in una stanza. Meno problemi, forse, meno interrogativi, meno spaesamento. Ci si poteva anche concedere il lusso di non pensare. Ma a quale prezzo? A prezzo della negazione dell’oltre dell’orizzonte, a prezzo dell’impoverimento della visione, a prezzo del soffocamento del brivido della ricerca. Chiusi nella prigione di una verità monolitica e spenta, ma chiusi anche nella stanza purtroppo del proprio risentimento, incapaci di dialogo, incapaci di cuore. Fermi, immobili nel pensiero, quasi bastassimo a noi stessi. Mi ritornano al cuore e me lo aprono, mi aprono cuore e intelligenza, le parole di uno dei più limpidi testimoni cristiani in terra di dialogo, il vescovo Pierre Claverie, che diceva: “Credo in Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio. Non si possiede Dio. Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri”.
Onorare l’intelligenza, stare in faccia alle montagne o chiudersi nella scatola di un appartamento? Ho sorpreso le immagini nelle parole rivolte da Tiziano Terzani ad Oriana Fallaci, in “Lettere contro la guerra”: “Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand’ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell’Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. E continuano a venire.
L’inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio Sanyasin vestito d’arancione. Era accompagnato da un discepolo, anche lui rinunciatario. ‘Dove andate, Maharaj?’ gli chiesi.
‘A cercare Dio’, rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo. (...)
Per questo sto, Oriana, anch’io ritirato in questa sorta di baita nell’Himalaya indiana, dinanzi alle montagne più divine del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose e immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti, come tutto nell’universo. La natura è una grande maestra, Oriana, e ogni tanto bisogna tornare a prendere lezione.
Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento, e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia e sentirai l’amore”.