EDITORIALE

Meglio poveri che sudditi

Alex Zanotelli

Speranza e apprensione. Preoccupazione e rabbia attraversano le piazze d’Italia piene di gente, che ha ritrovato il coraggio di prendere la parola. A Terzigno, nella difesa del territorio dall’ennesimo mostro che renderà insalubre la terra, come a Cagliari, dove i pastori sardi difendono la dignità del loro lavoro. Come a Teano, dove si è ritrovata la cittadinanza attiva del Meridione per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Oppure a Roma, dove la folla ha chiesto lavoro e democrazia. Paradossalmente, perché sono diritti costituzionali. Che si difendono dai tetti, come dinanzi ai cancelli delle fabbriche. Che si rivendicano perché negati, come se si potesse vivere del nulla. O quasi. Che si pretendono. Perché la dignità non ce la toglie nessuno. 

Nessuno nasce schiavo. Nel sangue di tutti gli esseri umani scorre la libertà. Eppure, ci sentiamo trattati da servi, utili idioti alle scelte di governo. Non liberi di dissentire, in modo pacifico. 

Si governa come se la gente – cui il servizio politico è rivolto – non ci fosse, non parlasse, non sentisse. Come se fossero numeri. 

“Meglio poveri e dignitosi che sudditi – ha detto il vescovo di Nola, Beniamino Depalma, in difesa dell’intifada dei comuni vesuviani – e destinati a vivere di veleni”.

Oggi la piazza è protagonista. La gente manifesta segni di stanchezza, di non sopportazione di soprusi legalizzati, di tagli ingiusti e flessibilità indebite, di decisioni che deturpano il volto delle terre e delle persone che le abitano. Sono condivisibili gesti di ribellione contro manovre economiche e scelte politiche che di tutto sanno, tranne che di aiuto alla gente e di bene comune. 

In tutta risposta, la democrazia odierna – che, come tante altre parole, risuona di remote memorie, svuotata oggi di senso – si “arma”. Non simbolicamente, ma in senso letterale. Si reprime la protesta, si trasforma la voce di un popolo in proclama di guerra. Perché oggi dissentire non si può. Chiedere ancor meno. Forze dell’ordine, militari in mimetica, scudi e lacrimogeni al posto di dialogo e di ascolto di chi, alla fin fine, vota, elegge e chiede. 

La piazza diviene, sempre più facilmente, campo di battaglia. Cittadini da un lato. Forze dell’ordine e militari dall’altro. 

Che ne è stato di coloro che dovrebbero sovrintendere e garantire l’ordine pubblico? Chi ci restituirà il diritto di manifestare e di esprimere il dissenso, in televisione come in piazza, rispetto a scelte di governo che non condividiamo? Chi ci darà indietro il diritto all’uguaglianza, alla tolleranza, al ripudio della guerra, alla libertà di manifestare (pacificamente) senza dover pagare alcun prezzo? Perché dobbiamo continuare ad assistere, inermi, silenti, a questo “disastro etico”, come lo ha definito “Famiglia Cristiana”?

Mentre in Afghanistan combattiamo con le armi in pugno, in Italia il fuoco e le armi sono parole d’ordine irremovibili (quest’anno siamo arrivati a24 miliardi di euro per la difesa!). Alla faccia dell’articolo 11 e del ripudio della guerra. 

Proprio nel ventennale della legge 185 sull’import-export delle armi, è gia nel cassetto un disegno di legge che vuol cambiare le regole. Bello pronto. È stata una delle più interessanti conquiste dei movimenti pacifisti che allora, nel 1990, operarono per porre alla base di una delle legislazioni più avanzate d’Europa principi come trasparenza e controllo allargato in ambito di commercio di armi. E oggi, in virtù di un adeguamento alle norme europee (quando ci fa comodo), si vuol cancellare tutto con un colpo di spugna. Tutto via. 

Diritti sindacali, lavoro dignitoso, ambiente salubre, dignità, trasparenza. Tutto cancellato. In nome della crisi, dei rifiuti o dell’Europa. O, domani, di chissà che altro.

Il dialogo è il solo, vero nome della pace. La parola. Che va restituita a chi ne è il detentore, cioè la gente comune. A tutti e tutte. 

 

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