Cittadinanza a punti
L’associazione Esodo ha organizzato, con alcuni comuni del veneziano, incontri di presentazione dei due numeri della sua rivista quadrimestrale, dall’omonimo nome “Esodo”, dedicati alle problematiche della cittadinanza: “Cittadinanza a punti” e “Fraternità tra sconosciuti”.
Nei dibattiti realizzati sono stati analizzati i vari meccanismi, sia nazionali che regionali, di diversificazione e di sbarramento degli immigrati nell’accesso ai servizi sociali e al sistema dei diritti e dei doveri a seconda della tipologia e della “qualità” dei permessi di soggiorno. Dal prossimo gennaio questa situazione sarà “sistematizzata” con l’introduzione del permesso di soggiorno a punti, che condizionerà la permanenza in Italia all’acquisizione e al mantenimento di un certo numero di crediti legati a determinate condizioni del soggetto stesso.
In questa prospettiva, nello Statuto del Veneto e nel sistema regionale di erogazione dei servizi e dei finanziamenti (alle persone, alle famiglie e anche alle imprese), si vuole affermare il principio “prima i veneti”, con riferimento, quindi, non solo agli immigrati ma a tutti coloro – di altre regioni o Paesi comunitari – che non hanno “particolari legami” con il territorio veneto, con la sua cultura e tradizione storica cristiana (!).
Nella rivista e negli incontri non abbiamo voluto affrontare il tema dal punto di vista dei principi, né costituzionali né cristiani. Siamo, invece, partiti dalla constatazione che, nella realtà, sempre maggiori quote anche di italiani sono “cittadini a punti”. Aumenta, infatti, la stratificazione nelle possibilità di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza. Questo processo non riguarda solo i cittadini italiani, considerati appartenenti alle fasce “emarginate”, quali i senza fissa dimora, i rom, i carcerati, o a quelle “deboli”, come i portatori di handicap e i malati, ma riguarda sempre più i ceti medi e gli anziani coinvolti in percorsi di impoverimento, coloro che perdono il lavoro, i precari, le donne e i giovani. Il lavoro, la salute, il costruirsi una famiglia, perdono il carattere di diritti universali e dipendono dai punti che vengono riconosciuti. Sta passando l’idea che questi problemi, secondo i livelli di gravità, sono a carico dell’individuo e della famiglia (il principale ammortizzatore sociale), della Caritas e dell’associazionismo “caritativo”, e alla fine riguardano l’ordine pubblico. Pensiamo agli sgomberi dei campi rom a Milano e a Verona.
La crisi economica e la stretta delle finanze pubbliche renderanno più pesanti queste disuguagliane e differenziazioni e, se continua questa logica, produrranno sempre più concorrenza e conflittualità “tra poveri”, portando ad atteggiamenti chiusi, difensivi, xenofobi o apertamente razzisti, utilizzati ed enfatizzati dagli “imprenditori” della paura e del conflitto, della creazione del nemico e del capro espiatorio.
D’altra parte, quei soggetti politici e sociali, che si pongono convintamene a favore di quelle fasce di esclusi, rischiano di non capire la complessità delle contraddizioni oggi esistenti. La generica affermazione dei valori della solidarietà e dell’integrazione, senza interventi differenziati, determina, inoltre, una retorica controproducente causa di atteggiamenti di indifferenza e di ostilità.
Non va, infatti, sottovalutato il problema della gestione dei conflitti che va affrontato con azioni mirate come quelle per sviluppare, a partire dalla scuola, reti e luoghi di relazione e di conoscenza reciproca, e con interventi di “compensazione” nei confronti dei ceti deboli che dalla presenza degli immigrati ricavano disagi.
Occorre analizzare e diffondere quelle iniziative, degli enti locali e della società civile, che affrontano i problemi in modo complessivo e concreto, con politiche attive che collegano i diritti, e i doveri, degli immigrati e degli altri soggetti deboli con quelli di tutti i cittadini. La vera lotta alla clandestinità e all’emarginazione si ha, infatti, combattendo la legalità e il lavoro nero, il caporalato, gli infortuni sul lavoro, l’economia sommersa e la precarizzazione del fattore umano, problemi che riguardano tutti, i giovani italiani come gli immigrati di prima e di seconda generazione.
Riduzione di cittadinanza
L’idea che sta alla base delle analisi dei numeri della rivista Esodo è che la condizione dei gruppi sociali più deboli metta in evidenza i profondi limiti di ampie aree del nostro sistema di welfare. Il “problema” costituito dagli immigrati, dai senza fissa dimora, dai carcerati, dai nuovi e vecchi poveri, a cui sono negati, in tutto o in parte, i diritti derivanti dalla cittadinanza, non è la causa del deterioramento sociale, come afferma molta propaganda, ma costituisce l’elemento che “rivela” il degrado sociale, le aree di corruzione e di privilegi corporativi, l’incapacità di governare processi complessi. La condizione degli immigrati, in particolare quelli di seconda generazione – si rivela comune, non in concorrenza – a quella dei giovani cittadini italiani. Il nostro tipo di sviluppo, infatti, spreca le risorse umane, penalizza i giovani, favorisce illegalità, clientelismo e corruzione: il diritto del lavoro sta perdendo la sua natura di standard minimo di trattamento universale, non solo per le fasce tradizionalmente escluse. Dagli immigrati ai senza fissa dimora – per i quali non a caso la legislazione è stata posta all’interno degli interventi contro la criminalità, ai portatori di handicap, considerati un “peso” nella scuola, si sta allargando ad altri strati l’equazione che chi non lavora e non si “arrangia” è come un clandestino.
Se questo è vero, esiste un legame stretto tra la negazione/riduzione della cittadinanza per alcuni gruppi e la messa in discussione della cittadinanza di tutti noi. Assumere il punto di vista degli esclusi non è, perciò, un valore astratto: è tutta l’organizzazione della vita sociale, del lavoro, che va ripensata, per creare reti di relazioni, di solidarietà civile, di legami e di doveri, nel rispetto delle leggi, uguali per tutti. Va capovolta la logica di chi vorrebbe “salvare” la nostra società da tutti i “clandestini” (dagli stranieri, agli emarginati autoctoni, ai giovani e ai disoccupati condannati all’invisibilità lavorativa e sociale): garantire a questi la cittadinanza equivale “salvare” noi tutti.
Vivere e sentirsi minacciati nella propria identità, significa in realtà che è deteriorato il nostro tessuto sociale e civile, è degradato il territorio, il nostro modo di abitare, di relazionarci, di pensare noi stessi e il nostro futuro, che si mostra fragile, teso piuttosto alla difesa di privilegi di casta che al riconoscimento dei propri doveri e diritti uguali per tutti.
Le considerazioni sopraesposte hanno portato ad articolare alcuni interventi della rivista sulle contraddizioni del concetto stesso dei diritti umani universali così come si è formato storicamente.
Come negli anni Sessanta, durante le lotte per l’autodeterminazione contro il colonialismo, si è affermato che i popoli, privi di forma statale, erano soggetti di diritti a livello internazionale, così ora occorre affermare che le persone in quanto tali, cittadini del mondo, sono soggetti dei diritti umani universali, non negoziabili, indipendentemente dalla cittadinanza nazionale.
Una seconda linea di riflessione, che intendiamo portare avanti, riguarda la necessità di pensare “laicamente” (come insegnato anche da Mazzini, Simone Weil, Norberto Bobbio e come contenuto nella nostra Costituzione) l’idea biblica che i diritti esistono in quanto corrispettivo di doveri: gli orfani, le vedove, gli stranieri hanno diritti in quanto esiste il comandamento di tutelarli rivolto alle istituzioni, ai potenti, al popolo intero, che, quindi, hanno precisi doveri nei confronti dei più deboli.