Cittadine oggi

Un forum tra donne per parlare di partecipazione, di uguaglianza, di famiglie.
Intervista a cura di Agata Diakoviez

Abbiamo scelto di parlare di questioni femminili e di prospettive future con donne di età e di professione diversa. Sono amiche costruttrici di pace e diritti nel loro quotidiano e in diversi contesti: Elisabetta, campana, presidente dell’associazione Le Kassandre (www.lekassandre.com), Miriam, pugliese e psicologa, Giulia, pugliese e studentessa lavoratrice. A partire da domande che sono solo uno spunto, tra i tanti possibili, per aprire un confronto, perché, oggi, più di tutto, rivendichiamo il diritto al pensiero e alla parola.

Quali sono, secondo il vostro sguardo di donne del Sud, le difficoltà e gli ostacoli che le donne devono affrontare per poter affermare se stesse? Elisabetta Riccardi (psicoterapeuta, presidente Le Kassandre): Credo che al Sud per le donne sia tutto più difficile perché manca un elemento fondamentale per l’emancipazione: il lavoro. La violenza maggiore che le donne subiscono è quella di non essere messe nelle reali condizioni di poter uscire dalla violenza, familiare e sociale. Sono costrette ad adeguarsi a condizioni inaccettabili perché non esistono alternative. La donna può, in alcuni casi, essere sostenuta nell’emergenza, ma le possibilità che possa essere accompagnata in un progetto di vita realmente alternativo sono limitate. Noi, con la nostra associazione, cerchiamo di coinvolgere le donne perché diventino protagoniste attive della propria esistenza e della società, ma a volte, in situazioni più difficili, l’assenza delle istituzioni, di possibilità di lavoro, può far sì che anche il nostro lavoro venga perso, e che il circolo della violenza non abbia fine. 

Miriam Marinelli (psicologa): Vorrei partire dal quotidiano perché, lavorando in un centro di igiene mentale, incontro spesso donne affette da depressione, con una vera e propria ansia da prestazione, con una tangibile impossibilità di riconoscersi il diritto ad avere dei bisogni. È come se una parte importante, che esiste, che pulsa, sia disconosciuta, soffocata. La depressione è, infatti, più femminile che maschile; spesso ho l’impressione che sia il risultato di un sovraccarico di ruoli che la donna deve ricoprire: il lavoro in casa e nella famiglia, le relazioni familiari, la cura dei piccoli o dei genitori anziani. Può accadere che il vaso si riempia. E si frantumi. Le donne sono tuttora troppo madri, sino al punto che, quando i figli si allontanano dal nucleo originario, dinanzi alla donna si apre un vuoto. Diventa faticoso ricostruirsi e rivedere il rapporto con gli altri, con la vita cittadina. Questo, almeno al Sud. Ascoltarsi è un diritto che non può essere rinviato a un senza-tempo, dopo aver provveduto ai bisogni degli altri, a quelli del figlio, marito, genitori. Inoltre, sono preoccupata per come viene vissuta oggi la relazione genitori-figli, determinante nella costruzione dell’identità. La situazione cui si assiste è una madre iperprotettiva e padre iper-assente. Se dobbiamo rileggere la condizione femminile oggi, dobbiamo nello stesso tempo rivedere il modo in cui è vissuta la paternità. I figli hanno bisogno della presenza attiva del padre, purtroppo oggi troppo spesso inesistente.

Giulia Di Pierro (studentessa lavoratrice): Il vero problema irrisolto, oggi, è l’assenza di welfare. Ciò che consentirebbe alla donna di conciliare meglio le diverse dimensioni, sono strumenti che in altri Paesi esistono: asili nido, part time, babysitter aziendali, spesa in azienda, turnazioni a richiesta. Noi siamo in ritardo. Certo, limiti e ostacoli esistono, a vari livelli, anche per l’influenza della Chiesa nella costruzione di una cultura di parità e di pari dignità tra generi. In ogni caso, le nuove generazioni avvertono meno una differenza di genere, intesa come assenza maschile dal contesto familiare o nei ruoli “casalinghi”. Oggi sono differenze meno accentuate. Dobbiamo esser grate alle battaglie di tutto il Novecento per l’affermazione dei diritti delle donne. Per il resto, credo che il vento fresco delle nuove generazioni sarà in grado di portare ventate di uguaglianza e di superamento di ogni discriminazione, ad esempio verso l’omosessualità. Le giovani generazioni sapranno affermare con “naturalezza” il valore dell’uguaglianza tra ogni essere umano. Il rinnovamento è un passo obbligato! 

La frantumazione della donna tra più ruoli e il produttivismo del mondo d’oggi: come vive, secondo voi, la donna la sua quotidianità? 

Elisabetta: Questa domanda dovrebbe essere rivolta a ogni singola donna; ognuna deve avere la possibilità di raccontarsi, di dare voce alla creatività che mette in gioco nella propria vita quotidiana. Per quanto mi riguarda, la mia quotidianità la impiego nel tentativo di non cedere alle tante aspettative che rischiano di far sentire, me come altre, “frantumate”, sforzandomi a fatica e con l’aiuto di altre donne di guardare criticamente alla realtà che ci circonda e alle richieste che ci vengono fatte, provando a valutare ogni volta il loro senso, il prezzo che paghiamo per un compromesso. Partendo da un “io” per arrivare a un “noi”. 

Miriam: La dimensione globale ed economica e l’aspetto culturale non sono in antitesi tra loro, ma complementari. Se prendiamo l’aspetto professionale, certamente le più penalizzate sono le donne. Ultimamente ho preso parte a un convegno il cui uditorio era molto femminile, mentre il banco dei relatori era prevalentemente maschile, e mi sono chiesta: come mai partiamo in tante e arrivano poi solo maschi? La risposta è semplice: se la donna deve essere contemporaneamente madre, moglie e professionista, prima o poi deve ridurre qualcosa e la prima cosa che taglia è il lavoro, la carriera; un ruolo professionale che comporta mobilità può essere affidato solo a un uomo. Se ci sono figli, poi, è come se fosse naturale che chi ha più diritti a star fuori è il padre. Chi ha più doveri a star dentro, la madre. Mi chiedo: quanto gli uomini sono educati a vivere la relazione di coppia e genitoriale? Dobbiamo incominciare a rivedere tempi e modi. 

Facebook è entrato in casa, anche laddove la donna non ha il coraggio di uscire alla ricerca del mondo. Possiamo parlare di liberazione in rosa a partire dalle nuove tecnologie, oppure è solo la costruzione di un mondo virtuale che rafforzerà la solitudine? 

Miriam: Le donne, rispetto agli uomini, sono più orientate alla relazionalità. Senza generalizzare, ma gli uomini lavorano e pensano per “obiettivi”; le donne sono, invece, più centrate al compito, lavorano “in rete”, prestano maggiore attenzione al percorso, a rinsaldare i contatti. Se il computer è un modo per portare il mondo a casa e noi stessi nel mondo, se rinforza il bisogno di contatto e di informazione, va benissimo. Poi, però, il raffronto va fatto sempre con le persone reali. Se, però, è un modo per surrogare con il virtuale il reale che mi sta stretto, allora è una trappola pericolosa. Il rischio è di relazionarsi al virtuale per allontanarsi dal mondo  reale. Se vissuto così, lo strumento telematico rende più difficile la costruzione della nostra identità. 

Giulia: Facebook è un social network utilizzato soprattutto da giovani, in un contesto in cui i problemi e le caratteristiche, anche relazionali, sono mutati rispetto alle generazioni precedenti. Io non credo che un qualunque social network possa essere una prigione o una liberazione. Per la mia generazione è solo una comodità: elimina la fatica della relazione fisica e consente di raggiungere 100 persone al giorno senza viaggiare. È una forma sincopata di relazioni reali. Le identità in questi luoghi virtuali non sono nascoste o irreali perché è obbligatoria una registrazione e vi è un certo controllo, a differenza del mondo delle chat in cui si usano i nickname. Anzi, il problema è opposto: dall’anonimato si passa alla vetrina spinta. I confini tra pubblico e privato sono labili e quasi inesistenti. 

Miriam: Ascoltando Giulia vorrei sottolineare un’ulteriore elemento: l’attuale difficoltà a elaborare, vivere i processi, discutere, entrare in relazione e sostenere il confronto e il conflitto. Quando qualcuno non rientra nei nostri obiettivi o intralcia i nostri percorsi, con un click nel computer, agisco, cancello, elimino. In facebook, cancello “l’amico”, posso farlo perché, nel mondo virtuale, l’amico, se voglio, torna a rivivere. Ma cosa accade se questi modelli di pensiero e di azione entrano a far parte della realtà in maniera inconscia? Nel mondo reale oggi si vuole eliminare la sofferenza, la fatica della relazione; tutto è sintetizzato. Sincopato, appunto. Il pensiero diventa azione senza elaborazione. Oggi si trascura molto la ricerca di senso di quel che facciamo. Cosa ci ha spinto a mettere in moto questo processo? Come va governato? Va ricentrato tutto intorno alla ricerca di significato. Forse il modello aziendale ha influenzato molto anche il nostro modo di agire quotidiano e ha mandato in fumo la nostra capacità di pensare e di elaborare.

Elisabetta: Facebook è uno strumento e, quindi, dipende da come lo si utilizza. Sicuramente può facilitare i contatti tra donne, associazioni, ma consente anche di diffondere notizie, informazioni importanti. Questo è l’uso che anche la nostra associazione ne fa e, in questo, è molto efficace. Sicuramente la partecipazione delle donne alla vita online è un segnale di ricerca di luoghi di socializzazione. Forse l’obiettivo dovrebbe essere quello di consentire alle donne di potersi esprimere non solo in luoghi “virtuali”. Insomma, guardiamo al web come un punto di partenza per unire le forze. 

La donna ha spazio di partecipazione alla vita pubblica? Sono possibili altre forme originali di cittadinanza? 

Giulia: La presenza femminile in politica è aumentata. A mio avviso, i probIemi per la donna, più che sul piano della partecipazione, li vedo altrove, per esempio, nell’assenza di strumenti di ausilio nella vita quotidiana. 

Miriam: Il problema, forse, sono i criteri di scelta: non ha senso optare per qualcuno perché bello, ha senso scegliere qualcuno perché ha le capacità, perché sa portare avanti un progetto. Oggi i criteri con cui sono scelte le donne in politica sembrano andare, invece, in altra direzione.

Elisabetta: Certamente la donna oggi è più consapevole di avere diritti e possibilità, anche in relazione alla partecipazione alla vita pubblica. Tuttavia accade, ancora troppo spesso, che per una donna la possibilità di partecipare debba passare necessariamente attraverso logiche maschili, rinunciando in molti casi all’espressione di un pensiero proprio, femminile. Questo accade indifferentemente, in politica come in chiesa e nei partiti. Le possibilità di partecipazione cambiano, inoltre, a seconda dei contesti: cambia tra Nord e Sud, tra periferia e centro, tra strati sociali. La scommessa è quella di poter dar voce anche alle donne silenti. Dobbiamo lasciar spazio a una libertà di pensiero e di azione ancora oggi condizionata da stereotipi che mortificano il pensiero femminile. Le donne dovrebbero unirsi per esprimere le proprie originalità. Le leggi sono fondamentali per l’affermazione di alcuni principi, ma se non sono interiorizzate da una cultura e una politica che le rispecchi, rischiano di rimanere solo parole scritte. La differenza di genere andrebbe valorizzata, considerata un arricchimento per tutti. Purtroppo ancora oggi la diversità spaventa, disorienta, si preferisce che venga messa a tacere. Le donne avrebbero molto da dire in merito a pratiche di convivenza, a cultura della diversità, a tolleranza, rispetto e capacità di mediazione. Bisognerebbe avere, però, il coraggio di ascoltarle. 

Famiglia e familismo: affetti, responsabilità e silenzi. Quale modello di famiglia oggi? 

Giulia:

Sono confusa in merito, non ho un modello di famiglia in mente. Pur convinta che sia un’istituzione ancora fondamentale, penso si debba inventare di volta in volta un modello nuovo, anche – perché no – valorizzando la “vecchia” famiglia allargata e il modello “a rete” di cui fanno parte vari membri e a vario titolo. La cosa più importante, partendo dalla mia personale esperienza, è che vi sia la libertà di vivere i sentimenti che si provano. Certo, mi spaventa un po’ l’idea e la responsabilità di una mia famiglia, in cui crescere ed educare un figlio oggi. 

Elisabetta: L’attuale Costituzione (art. 29) sembra aver riedificato la famiglia italiana in senso ampio, dalle fondamenta: ha tolto la patria potestà del padre, ha insediato la potestà della coppia genitoriale, ha fondato una comunità non gerarchica ma paritaria, ha sostituito l’autorità del marito e padre con l’accordo e l’uguaglianza dei coniugi, e, infine, ha aperto il mondo privato delle scelte e delle decisioni familiari, in caso di divorzi o separazioni, al sostegno pubblico del giudice. Un aspetto, già sottolineato, è che, a fronte di una “messa in ombra” paterna, la madre è lasciata sola a gestire la formazione del figlio. Questo fenomeno ha modificato inevitabilmente la cognizione psichica e affettiva che i figli hanno dei ruoli e delle funzioni della madre e del padre oltre che quella della coppia rispetto ai propri ruoli di genere. 

Il cambiamento lesgislativo  importante non è stato accompagnato da reali azioni politiche e culturali di sostegno per la neo-costituita famiglia, Ed è la donna che purtroppo, ancora una volta, fa le spese maggiori di questa situazione. La società, poi, non facilita la nuovi equilibri, vedi la difficoltà di accesso agli asili nido, la mancanza soprattutto al Sud di congedi parentali per i papà ecc.. Quando i cambiamenti non sono sostenuti da un sistema culturale e politico che se ne faccia carico, rischiano di divenire una minaccia per il singolo nucleo familiare. E la minaccia si trasforma in violenza. 

Miriam: È difficile, oggi, parlare di un unico modello di famiglia. Sappiamo cosa non è più e stiamo cercando di capire cosa è diventata, anche in relazione alla trasformazione dei ruoli maschile e femminile. 

È importante avere la capacità di costruire insieme quello che si fa. Siamo diversamente uguali, la parità non è assimilazione ma riconoscimento dell’uguale diverso valore di entrambi. C’è una bella frase di Kennedy spiega bene questo contesto: “Essere d’accordo sul fatto che possiamo anche non essere d’accordo”. 

 

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