Ritorniamo a fare la calzetta?
Questa non è solo la storia di quanto sta accadendo alle lavoratrici della Omsa, ma è la storia di chi vive il dramma di perdere il posto di lavoro.
L’Omsa è un’azienda di Faenza (Emilia Romagna), nata nel dopoguerra, che produce collant per donna. Un’azienda che, dalle origini, ha occupato fino a 2000 dipendenti, per la maggioranza donne. Donne che, fino a quel momento, erano casalinghe o lavoravano nei campi. L’occupazione nella Omsa ha segnato una forte svolta anche sotto il profilo dell’emancipazione femminile del protagonismo delle donne nel mantenimento proprio e della famiglia.
Nel 2001 l’Omsa, di proprietà di Arnaldo Grassi, viene venduta al fratello, Nerino Grassi, detentore di un’altro grande marchio italiano della calza, la Golden Lady.
A detta del nuovo titolare, l’entrare a far parte di un grande Gruppo, avrebbe significato per i dipendenti Omsa, una maggior sicurezza per il futuro. Nello stesso periodo, la dirigenza ha comprato due stabilimenti in Serbia che, nel giro di qualche anno, hanno occupato circa 1500 dipendenti.
La preoccupazione delle lavoratrici e dei sindacati che questa nuova occupazione potesse mettere in pericolo i nostri posti di lavoro, è sempre stata espressa alla direzione della Golden Lady, la quale ci rassicurava sostenendo che all’estero avrebbero “portato” solo le lavorazioni di basso valore, mentre noi, a Faenza, producevamo un prodotto con valore medio-alto.
All’inizio del 2009, l’azienda ci comunicava l’intenzione di aprire una cassa integrazione ordinaria perchè la crisi del mercato faceva sentire i suoi effetti ed era necessario diminuire la produzione. Alla fine del 2009 ci informava di dover chiudere la sede di Faenza, concedendoci tutti gli ammortizzatori sociali possibili.
Poi abbiamo saputo che, nello stesso periodo in cui noi eravamo in cassa integrazione, in Serbia avevano assunto nuovo personale, e dai 1500 dipendenti erano passati a 1900.
In Serbia altre lavoratrici avevano già preso il nostro posto!
Fino a quel momento la Serbia per noi non era un problema: se l’azienda riteneva di dover dare lavoro a donne all’estero era cosa buona, se continuava a far lavorare anche noi. Quando abbiamo saputo che in Serbia assumevano e in Italia licenziavano, è cominciata la nostra lotta, con l’appoggio della Cgil, per il diritto al posto di lavoro.
Abbiamo cominciato con un presidio davanti ai cancelli dell’azienda, iniziato l’11 gennaio 2010 e durato per ben 50 giorni: notte e giorno dinanzi ai cancelli, con turni di 4 ore, anche con la neve e meno 12 gradi, perché non portassero via macchinari e non smantellassero la fabbrica.
Abbiamo lottato al Ministero, perché l’azienda prendesse decisioni diverse, meno drastiche, in un momento così difficile per l’occupazione: visto che la Golden Lady è un Gruppo leader in Italia nella produzione della calza (detiene diversi marchi: Omsa-Sissi-Filodoro-Philippe Matignon-Saltallegro-Serenella, ndr) e occupa nei suoi stabilimenti italiani circa 3300 dipendenti, abbiamo chiesto se si potesse fare un accordo di solidarietà.
Ma il volto dell’azienda si è dimostrato becero, arrogante. Nessun passo indietro sulle sue posizioni, con il pieno appoggio di Ministero e di Governo.
Noi, con la Cgil faentina, proseguiamo la lotta contro un’azienda che non è in crisi, ma che decide di chiudere uno stabilimento in Italia. Non possiamo esimerci dal dire che è solo una scelta di interesse.
La nostra è una lotta per il diritto al lavoro; un lavoro che avevamo; che avevamo scelto, facendo sacrifici, perchè, nonostante gli orari e i movimenti ripetitivi e alienanti, attorno a tutto ciò avevamo disegnato la nostra vita familiare, la crescita dei figli, la certezza di avere un lavoro sicuro, con il quale pensavamo di arrivare alla pensione. Poi, improvvisamente, ti rendi conto che i sacrifici sono serviti a ben poco. Sei buttata via come uno straccio vecchio.
Proprio perché donne, pochi pensavano che avremmo continuato così tanto nel farci sentire. Ma noi non ci siamo arrese.
Insieme abbiamo trovato il coraggio di ribellarci a una scelta ingiusta, di non avere paura di lottare per il diritto alla dignità e il diritto al lavoro: dobbiamo restare unite per mantenere quei diritti che i nostri genitori e i nostri nonni ci hanno lasciato dopo tanti sacrifici compiuti sulla loro pelle. Senza il lavoro una persona non è libera. E, se non sei libera rischi di diventare schiava delle scelte che altri faranno per te. Senza un lavoro, ti tolgono anche la dignità di persona.
Come lavoratrici e donne ci siamo unite con la Cgil, per avere un punto di riferimento, un sostegno, e insieme abbiamo fatto di tutto per ribellarci e far sentire la nostra voce, il nostro urlo contro l’ingiustizia: abbiamo cominciato a partecipare ai consigli comunali della nostra città, perché chi ci amministra senta la nostra presenza. Non ci accontenteremo solo di parole; abbiamo partecipato a trasmissioni televisive sull’argomento; abbiamo inviato comunicati stampa a tutti i giornali per mantenere alta l’attenzione su quello che ci accadeva.
Ci siamo iscritte all’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) perchè questa è la nostra resistenza.
Siamo state invitate a Genova alla “Settimana dei Diritti”; siamo diventate “attrici”per due giorni con il teatro di strada con “Le Brigate” (grazie al Teatro Due Mondi); la redazione di Rai 3 ha trasmesso più volte servizi sulla nostra situazione; abbiamo partecipato ad Anno Zero con un tale risalto mediatico a livello nazionale che abbiamo potuto riscontrare alla manifestazione della Fiom Cgil dello scorso 16 ottobre: lungo il corteo ci hanno applaudito e hanno urlato “brave, non mollate”. È stato emozionante vedere che persone che non ci conoscono ci sostengono e sono solidali con noi e con la nostra battaglia.
È stato un respiro nuovo, una conferma. Siamo dalla parte giusta, anche se a volte sopraggiunge lo scoraggiamento. Molte persone, come noi, pensano che non dobbiamo restare in silenzio, ma dobbiamo lottare per tutte le ingiustizie che tanti lavoratori, ma soprattutto tante lavoratrici, stanno subendo sui posti di lavoro; dobbiamo stare insieme e urlare anche per chi non ha voce, per chi ha perso il proprio posto di lavoro nel completo silenzio e nella solitudine.
Questa crisi la stanno pagando le persone oneste, che hanno sempre lavorato e pagato le tasse.
La pagano le donne, che nonostante il 2011 alle porte e la tanto declamata “pari opportunità”, sono state riportate indietro di 50/60 anni. Il rischio è che, paradossalmente, la donna non dica nemmeno di essere disoccupata perchè a casa ha tanto lavoro da fare: gestire la famiglia, i figli, i genitori anziani.
Ora nei media si parla solo di donne-merce: vali se sei consumatrice, se sei bella e hai qualcosa da offrire.
Ma ciò che la donna può offrire è la sua dignità, la sua fierezza, la forza e perseveranza nel non tollerare le ingiustizie e nel lottare per avere un diritto sancito dalla nostra Costituzione, che questo Paese sembra dimenticare.
Io e le mie colleghe Omsa abbiamo discusso, ci siamo arrabbiate, abbiamo investito tempo ed energie, sottratti alla famiglia, agli affetti, perché non si abbassi la guardia sulla nostra situazione, per voler dire a tutti come si sta comportando un’azienda italiana. Solo l’esempio di una tra tante.
Abbiamo investito serenità, perso la tranquillità, fatto traballare i sogni per i propri figli e la speranza di un futuro migliore per tutti e per tutte. Ci ha spalancato gli occhi sulle brutture che possono succedere in situazioni come queste, perchè puoi incontrare persone impegnate solo per i propri interessi personali e non su quelli della collettività.
Ma è anche un’esperienza che ci ha dato tanto: il valore dell’ascolto e la capacità di pensare con la propria testa, il sentirsi “insieme” più forti, il non essere sole, l’avvertire il sostegno, l’abbraccio se ne hai bisogno, lo stare insieme perchè hai condiviso un’esperienza di vita molto forte che nell’animo lascerà il segno per tutta la vita e che non dimenticheremo mai; la voglia di lottare anche se ti dicono che sei in minoranza, perchè sai di essere dalla parte della ragione; la fierezza di lottare per quei diritti che non sono solo tuoi, ma che dovrebbero essere di tutti in un Paese che si dice civile.
Tutto questo, e molto di più, ci rimarrà insieme a un sorriso sulle labbra, che nonostante tutto non ci ha mai abbandonato.