Tra elezioni e referendum
I referendum previsti per il 9 gennaio 2011 sono l’appuntamento decisivo nella storia del Sudan contemporaneo – dall’indipendenza nel 1956 – per due motivi: primo, perché un referendum stabilirà se il Sud diventerà uno Stato indipendente o se rimarrà a far parte dell’attuale Sudan; secondo, perché il modo con cui verranno gestiti i risultati del referendum saranno decisivi per chiudere – si spera definitivamente – o, purtroppo, riaprire una guerra civile tra Nord e Sud, tanto dolorosa quanto sanguinosa, durata dal 1983 al 2005, che aveva causato due milioni (stimati) di morti.
I referendum – oltre a quello sull’autodeterminazione del Sud, un altro deve decidere se il territorio di Abyei, al centro del Paese, apparterrà al Nord o al Sud – erano previsti dagli accordi di pace globale del gennaio 2005: ne sono forse l’elemento centrale, ciò che tutti aspettano in Sudan. Molti con speranza, non pochi con timore.
La ventennale guerra tra Nord e Sud era stata spesso interpretata come uno scontro tra “arabi” e “africani” o tra “musulmani” e “cristiani”; in realtà la situazione era molto più complessa: c’era da risolvere un problema di mancato equilibrio e di diseguale distribuzione del potere politico e delle risorse economiche tra centro e periferia. Problema che non sembra essere stato completamente risolto nemmeno oggi.
Per dare un’idea del clima che si respira nella capitale Khartoum può bastare un solo esempio: il 27 ottobre la presidenza sudanese – composta da due membri del Partito del congresso nazionale (Ncp), ovvero il presidente Omar Hassan el Bashir e il vicepresidenti Ali Osman Taha e dal leader del Movimento di liberazione del Sudan, (Splm) il vicepresidente Salva Kiir Mayardit – si è impegnata a “sostenere la pace e a prevenire qualsiasi spinta verso il ritorno a un conflitto civile”, “indipendentemente da quale sarà il responso del referendum” nel Sud. I toni cercano di tranquillizzare, ma il contenuto dimostra che “il ritorno a un conflitto civile” rimane uno degli scenari possibili per il post-referendum. Una decina di giorni prima il ministro per le Finanze e l’Economia, Ali Mahmood Abdel-Rasool, aveva fornito una chiave di lettura sulle possibili conseguenze del referendum. Se il Sud diventasse indipendente, “il Nord perderebbe il 70% delle riserve e il 50% delle rendite petrolifere”.
Il petrolio è stato un elemento decisivo per arrivare alla pace tra Nord e Sud (meglio spartirsi le rendite che combattersi e rendere così assai complicati gli affari) e spiega il boom economico – per i parametri africani – dell’economia sudanese nell’ultimo decennio. Il punto è che la maggior parte dei pozzi si trova nel Sud o nelle regioni contese tra Nord e Sud.
Un’occasione mancata?
I referendum saranno, dunque, decisivi, più di quanto non lo siano state le elezioni di aprile. Esse hanno anzi confermato la suddivisione del potere, con il Ncp che domina il Nord e lo Splm che domina il Sud.
Oltre 16 milioni di persone su una popolazione di oltre 40 sono state chiamate a eleggere il presidente della Repubblica, i deputati del Parlamento nazionale (450) e i governatori degli Stati federali; anche nel Sud – regione che già oggi gode di un’ampia autonomia – sono stati eletti Presidente e Parlamento. Per molti elettori si trattava delle prime elezioni della vita. Erano in ogni caso le prime libere da quando il generale Bashir ha preso il potere con un colpo di stato nel 1989.
Nonostante le osservazioni di non poche organizzazioni della società civile – Human Rights Watch ad esempio aveva avvertito che “le condizioni attuali in Sudan non permettono elezioni libere, regolari e credibili” – la comunità internazionale ha scelto di accettare i risultati. Bashir ha ottenuto il 68% dei voti validi depositati, Kiir nel Sud oltre il 90%. Così l’ex presidente americano Jimmy Carter, presente in Sudan con la sua associazione per i diritti civili e la missione americana di monitoraggio delle elezioni, ha dichiarato: “Nonostante il voto non abbia potuto soddisfare gli standard internazionali, la maggior parte degli Stati lo accetterà”. E la Lega araba ha confermato: “Il voto, pur considerando le irregolarità, i ritardi e l’insufficiente preparazione del personale dispiegato, è una pietra miliare nel percorso che il Sudan sta facendo verso la democrazia”.
Il fatto che Bashir sia ricercato dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) per crimini di guerra e contro l’umanità e per genocidio – presunti reati commessi in Darfur – non ha certo aiutato né il tranquillo svolgimento delle elezioni né le relazioni internazionali del governo di Khartoum. Il 4 marzo 2009 la Cpi ha emesso un mandato di arresto contro Bashir, il quale – rifiutando la giurisdizione della Cpi – nega le accuse, ma rischia di essere arrestato quando mette piedi fuori dal Sudan.
Una ferita aperta
Proprio il Darfur – la regione occidentale del Sudan, grande quanto la Francia – rimane un punto interrogativo, a prescindere dai risultati dei referendum. La guerra civile scoppiata nel 2003 con la ribellione politica e militare di alcuni gruppi locali contro il governo di Khartoum, non si è saldata con la ribellione nel Sud. I darfuriani sono stati esclusi dagli accordi di pace “globale” nel 2005; il cosiddetto accordo di pace del Darfur, nel 2006, è stato tanto parziale quanto incompleto e non ha risolto la situazione sul terreno, dove ormai la maggior parte della popolazione (soprav)vive nei campi di sfollati solo attraverso gli aiuti umanitari della comunità internazionali. Alcuni gruppi sul terreno non hanno deposto le armi e anzi nel 2008 il più attivo tra questi – lo Jem – ha tentato di prendere il potere attaccando militarmente Khartoum. Il tentativo è fallito da un punto di vista militare ma ha lasciato una grande impressione da un punto di vista politico: nel più vasto Paese africano, grande circa otto volte l’Italia, quello del Darfur non è un problema solo regionale, bensì nazionale. Così come quello dell’emarginazione dell’Est del Sudan o dei Monti Nuba, al centro.
In un simile contesto appare un mezzo miracolo che Nord e Sud siano riusciti, pur tra reciproche diffidenze, a convivere in un governo di unità nazionale per sei anni. Per preparasi meglio a una nuova pace (magari da separati) o a una nuova guerra?