OBIEZIONI

La guerra delle Malvinas

Dopo 28 anni, in Argentina i veterani continuano a lottare contro l’indifferenza sociale e l’abbandono dello Stato.
Manuela Lasdica (giornalista, esperta in relazioni internazionali, Buoenos Aires )

In pieno centro di Buenos Aires, da anni sono accampati i veterani delle Malvinas. Con le loro tende, gli enormi striscioni un po’ sbiaditi, fanno sentire la loro voce. Di tempo ne è passato da quando Gualtieri dichiarò guerra all’Inghilterra per riconquistare la sovranità di un pezzo di terra che gli argentini considerano ancora loro e si rifiutano di chiamarlo Falkland. 28 anni sono passati, da quando i soldati ritornarono a casa, magri, pallidi e traumatizzati. Una guerra persa in partenza, data la potenza del nemico con il quale dovevano combattere, la scarsa esperienza militare delle truppe argentine e le armi poco adatte per affrontare una guerra. “I fucili erano vecchi, alcuni sparavano altri no. La maggioranza di noi non era preparata, io sono stato istruito solo tre giorni prima della guerra”, mi racconta Osvaldo mentre beviamo un caffè in un bar a pochi passi dal Parlamento dove è in corso una manifestazione. “Alcuni venivano dal nord dell’Argentina per integrarsi alle truppe navali, non avevano mai visto il mare e durante la guerra dovettero prima di tutto imparare a sopravvivere nel caso in cui la flotta fosse affondata”, spiega Oscar Vasquez, presidente dell’associazione veterani di Ituzaingò, in provincia di Buenos Aires. Mettendo in pericolo la vita di centinaia di giovani, il governo non esitò a dichiarare la guerra; era in gioco la continuità dei dittatori militari che conquistarono il potere con un colpo di stato nel 1976 e che negli anni Ottanta incominciava a declinare. Riconquistare le Malvinas era un ottimo strumento nazionalista per accendere gli animi patriottici degli argentini e recuperare il consenso popolare. Con la conseguente sconfitta argentina, i militari dovettero cedere il potere alla democrazia, e la guerra servì solo a lasciare ferite aperte. Dalla fine della guerra in poi, molti di coloro che furono chiamati a combattere, non sono mai stati riconosciuti dallo Stato come veterani, per il semplice fatto di essere rimasti nel sud della Patagonia, mantenuti li come riserve e per difendere il Paese nell’eventualità di un attacco diretto al suolo argentino da parte delle truppe britanniche. 

Vengono definiti continentali, differenziandoli dagli ex combattenti, che invece sono riconosciuti veterani perché hanno combattuto direttamente nelle Malvinas. Così, un’altra delle conseguenze che ha lasciato la guerra, sono divisioni e conflitti tra gli stessi veterani, tra continentali ed ex combattenti. Una divisione che ha creato lo stesso Stato con una legge del 1988 che cambiò la sfera territoriale del conflitto escludendo la piattaforma continentale e includendo geograficamente, come parte del territorio dove si svolse la guerra, solo l’isola. In questo modo vennero ridotti i numeri dei combattenti, i veterani continentali, che, a differenza degli ex combattenti che nel 2004 , con il governo di Nestor Kirchner, sono riusciti a ottenere tre pensioni e assistenza medica, non hanno mai ricevuto nessun tipo di beneficio, nonostante – come spiega, Gerardo, ex soldato continentale – e il governo militare allora incluse anche il litorale marittimo e installò le basi militari nel sud del Paese. 

Noi siamo stati nel continente mandando munizioni e alimenti a coloro che erano nelle Malvinas. Se non partecipammo direttamente alla guerra, non fu una decisione nostra ma dei superiori. Ma anche noi abbiamo sofferto il freddo e la fame, ci tenevano lì perché se la guerra fosse continuata, saremmo dovuti andare a combattere”, grida a voce alta un continentale nel mezzo della manifestazione. 

Quando partirono avevano solo 18 anni e si domandavano se fossero mai ritornarti a casa. Oggi quei piccoli soldati sono cresciuti, ma non dimenticano e, con rabbia e caparbietà, indossano le loro divise militari, continuano a protestare ogni giorno sperando che lo Stato gli dia un minimo di riconoscimento. Le proteste vanno avanti da quando la democrazia si affermò in Argentina. Ci fu solo un breve periodo di silenzio. Quando finì la guerra, i militari li obbligarono a non parlare più delle Malvinas: “Ci caricarono sugli autobus di notte, e con le tende chiuse, perché il governo non voleva ammettere la sconfitta e non volevano mostrare alla popolazione le condizioni in cui eravamo, magri, distrutti psicologicamente, e molti senza una gamba o senza un braccio. Una volta arrivati, ci fecero un questionario nel quale dovevamo dichiarare che fummo trattati bene e poi ci dissero di non parlare più della guerra”. 

Quando i militari lasciarono il governo, la vita degli argentini ricominciò senza più paura, in piena democrazia. Ma dei veterani e delle Malvinas nessuno parlava.

Traumi da guerra

Molti si chiusero in casa e dopo un po’ si suicidarono perché non seppero affrontare questa situazione di abbandono da parte della società. Altri invece, con difficoltà, incominciarono a cercare lavoro, ma le porte gli furono chiuse. Il semplice fatto di essere un veterano di guerra li condannava a rimanere senza lavoro; venivano considerati pazzi a causa delle conseguenze psicologiche. Da questo momento, incominciarono le proteste e i veterani si raggrupparono in quelle che oggi sono le loro associazioni. “Fu difficile raggruppare i veterani, perché molti volevano dimenticare. Protestavamo per ottenere attenzione sanitaria, un lavoro e una casa, ma la stampa non ci ha mai dedicato un articolo, non ci ha mai intervistati, e il governo non ci rispondeva”. Quando chiedo se qualche partito politico li ha appoggiati, mi rispondono: “Gli presentavamo un progetto politico e ci promettevano che lo avrebbero discusso in Parlamento, ma poi sparivano, anche il resto della gente, che quando partimmo per la guerra era nella piazza a incoraggiarci, ci ha lasciati soli”. Come mi spiega Oscar. Quando cerco di saperne di più, e chiedo di raccontarmi le sofferenze che hanno patito, mi rendo conto che intervistare un veterano non è facile. Non è facile chiedergli di ritornare al passato, sul campo di battaglia, dove hanno sofferto fame e freddo, dove hanno visto morire sotto i propri occhi i loro compagni. 

Tra forza e rabbia ti spiegano le ragioni della loro protesta, con orgoglio ti dicono che sono andati a combattere per rivendicare la loro patria e che, quindi, lo Stato deve riconoscerli. Quando gli si chiede di raccontare le conseguenze psichiche, le sofferenze e i traumi che hanno subito, il tono di voce si abbassa, gli sguardi cambiano. Alcuni restano in silenzio, prendono fiato e poi iniziano a raccontarmi le loro esperienze. Altri piangono. Mi raccontano delle torture subite. Nessuno dei superiori tiranni è stato processato. 

La morte dei loro compagni è una delle conseguenze psicologiche più gravi che ha lasciato la guerra. “C’erano compagni che avevano perso una mano, una gamba. La fame, il freddo li puoi sopportare, ma vedere un compagno perdere una gamba o morire no. Quando torni a casa, nella mia mente c’è solo il ricordo delle bombe che esplodono e dei compagni finiti nelle tombe”. Il trauma post-guerra, a distanza di tempo, continua a condizionare ancora oggi la vita dei veterani. Il flashback è uno dei fattori più ricorrenti: il veterano torna e ritorna continuamente con la sua mente sul posto di guerra, si sveglia di notte e non riesce a dormire, come ci racconta Oscar. Sembra che non ci sia differenza tra gli ex combattenti e i continentali, la voce è univoca, i traumi, le perdite degli amici, sono sofferenze che nessuno dimentica. 

Quando chiedo che cosa pensano dei giovani che vogliono arruolarsi nell’esercito, tutti esprimono il loro dissenso: “L’esercito non ti rispetta come persona, la guerra è una delle cose peggiori che può toccare a una persona, il veterano è contro la guerra perché sa bene quello si soffre durante un conflitto e i le conseguenze che ti lascia ”.

Questo Paese ha un grande debito con i veterani, anche perché, se da 28 anni l’Argentina può essere definito un Paese democratico, in parte lo si deve a loro. È anche grazie al sangue disperso nelle Malvinas e alla morte di molti giovani se la democrazia trionfò nel 1983. 

 

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