Un Paese vecchio
Non a Pompei è ai Fori di Traiano. Piuttosto tra gli scranni del Parlamento e nelle diplomazie rigide dei partiti e dei poteri, sulle cattedre delle università e con i camici bianchi tra le corsie degli ospedali, tra gli incensi del conclave e nei palazzi antichi espiscopali. Vecchio perché precario. E vecchio non è negativo. È negativo se sta da solo senza l’apporto fresco e creativo di chi guarda oltre. Vecchio e basta. Solo. Senza chi scruta il dopo e non il fondo. Questo è un Paese vecchio che rischia di diventare senza speranza. Sono giovani i militari italiani sui fronti di guerra. Strumenti nelle mani di burocrati ingialliti tra i giochi di potere e le telefonate maliziose con i partner dell’altra sponda dell’oceano. Giovani i volontari di ciò che resta della cooperazione internazionale. E quelli che – forti – lasciano capanne di fame per nuotare lesti verso le sponde ricche della televisione luccicante di varietà. Vecchi che non è disprezzo per le rughe che amo e da cui bevo le parole sagge e l’arte di creare che rende addirittura immortali. Questo è un mondo che non sa più impastare quella sapienza con la corsa a perdifiato e spregiudicata, di chi canta e ama, di chi ha ancora tante pagine bianche da scrivere e sbagliare. Ed è tragico proprio perché non impara, chi non può nemmeno sbagliare.