La nonviolenza s’è persa per strada
Gli studenti che manifestano non chiedono solo una riforma decente. Chiedono qualcosa di molto più vitale per la nazione e per la loro vita. Come si è scritto e detto in questi giorni, si tratta del dolore latente di una intera generazione senza prospettive. Marchiata a fuoco sulla loro pelle c’è la condizione precaria. Precari a vita. Senza sbocchi, senza realizzazione, senza futuro. Non c’è vita peggiore di quella che non abbia la possibilità di progettarsi. La questione della violenza viene dopo. È il derivato amaro di questa disperazione. Ancora più triste è che non ci siano state voci forti che abbiano saputo riflettere su questo secondo versante incuneando nel dibattito il nodo centrale della nonviolenza. Parola bandita o smarrita dal lessico mediatico e politico. E non si tratta della semplice rinuncia alla violenza. Piuttosto è stile di vita, scelta profonda e convinta, non solo nell’ordine delle strategie e degli strumenti di lotta, quanto dei principi ispiratori e fondanti del nostro stare al mondo. A chi non ha la pratica della nonviolenza come bussola della propria esistenza, l’uso della forza sembra la scorciatoia e lo sbocco necessario e inevitabile per affermare la propria idea, la rivendicazione, la disperazione. Quelle frange di studenti sono il naturalissimo prodotto di una politica estera, di un parlamento, di un’economia, della cacciata degli stranieri, di un dibattito politico che la nonviolenza non sanno nemmeno dove sta di casa. Ipocrita e falso chi se ne scandalizza.