«El caminante» ha raggiunto la meta
Il primo ricordo che conservo di don Samuel Ruiz nel suo Chiapas è un episodio, tanto semplice quanto significativo, avvenuto sulla piazza di un piccolo paese, ignorato dalle carte turistiche, ma importante luogo d'incontro delle diverse etnie locali, in occasione del mercato settimanale.
Ci eravamo conosciuti alcuni mesi prima, quando venne in Italia per visitarci in qualità di presidente internazionale dei comitati "Oscar Romero" (SICSAL) e proprio dall'incontro annuale di questa organizzazione, tenutosi quell'anno in Ecuador, stavamo rientrando alla volta di San Cristóbal de Las Casas. Viaggiavamo accompagnati dalla scorta, perché in quel periodo don Samuel rivestiva anche il delicato ruolo di presidente della CONAI, la Commissione Nazionale di Intermediazione tra gli insorti zapatisti dell'EZLN e il governo federale. In prossimità della piazza, fece fermare l'auto per offrirci un tipico «fresco» della tradizione indigena, fatto con mais e cacao, ma al banco delle bevande non ci saremmo mai arrivati, perché la gente, accortasi immediatamente della sua presenza - sebbene andasse vestito come un qualsiasi vecchierrello - gli si riversò addosso per abbracciarlo. La scena fu impressionante: un'intera piazza correva verso di noi.
D'istinto mi voltai per osservare il comportamento dei suoi «malos chicos» - come scherzosamente chiamava gli uomini della scorta (in Messico è detta così la "banda bassotti") e uno di loro, intendendo la mia perplessità, mi prevenne: «vede bene, padre, che non potremmo mai fermare l'entusiasmo degli indigeni nei confronti di don Samuel, altrimenti sarebbero guai. Possiamo solo controllare che non ci siano infiltrati...».
Un vescovo con la sua gente, al mercato! Ecco chi era e chi avrebbe continuato ad essere don Samuel Ruiz, anche dopo il ritiro dalla diocesi per limiti di età. Il Chiapas dava così il bentornato al suo Tatic, come amabilmente lo chiamano i discendenti degli antichi Maya. Anche questo è un particolare tutt'altro che trascurabile: nelle lingue indigene, infatti, Tatic significa "padre", ma in quanto titolo viene attribuito soltanto a coloro che rivestono una paternità fortemente riconosciuta dalla comunità.
E' necessario perciò conoscere bene la chiusura autoprotettiva di quelle popolazioni per rendersi conto di quanto non fosse affatto scontato che lo attribuissero ad un meticcio, venuto dal lontano nord, terra degli antichi rivali aztechi e degli oppressori di oggi...
E in verità, un piccolo colonizzatore dovette sembrargli anche lui quando, nel gennaio 1960, papa Giovanni XXIII lo spedì, a soli 35 anni, ad assumere il ruolo che fu di Bartolomé de Las Casas, in quella regione del sudest messicano che nessuno voleva. Tranne il suo immediato predecessore - considerato un fenomeno per aver resistito quindici anni - dall'epoca del grande patrono (1543), la diocesi chiapaneca (comprendente anche le attuali Tuxla Gutierrez e Tapaciula) era solita cambiare i vescovi con una rapidità impressionante: lui vi sarebbe rimasto per quarant'anni.
Gli inizi però furono tutt'altro che facili perché, malgrado il tratto amabile e le buone intenzioni, dal nord e soprattutto da Roma si era inevitabilmente portato una formazione ecclesiocentrica ed eurocentrica: così, prima di convertire gli altri, dovette convertire se stesso o meglio lasciarsi convertire da loro. Certo non gli mancavano l'intelligenza e l'umiltà necessarie per farlo. Veniva, infatti, dal popolo e in mezzo alla gente aveva sempre vissuto.
Nato il 3 novembre 1924, da una famiglia di lavoratori emigrati negli USA, ma prontamente rientrati in Messico perché il padre non voleva che suo figlio nascesse gringo, era entrato tredicenne nel seminario diocesano, dove avrebbe ricevuto la tipica formazione sacerdotale del tempo, comprendente anche un periodo romano, dal 1947 al 1952, dove fu ordinato sacerdote il 2 aprile 1949 e dove si laureò in Sacra Scrittura, presso il Pontificio Istituto Biblico.
Rientrato in Messico insegnò Bibbia nel Seminario di Leon, di cui fu anche rettore fino alla nomina episcopale.
L'ingresso in diocesi, secondo le consuetudini trionfalistiche del tempo e i primi mesi da «bravo» vescovo, assunsero in seguito, sulle sue labbra, un carattere persino umoristico, mentre si descriveva in maniera incredibile per quanti lo avrebbero incontrato negli anni della piena maturità.
«All'inizio ero come un pesce che dorme con gli occhi aperti... avevo gli occhi aperti, ma non vedevo la realtà... Vedevo gente povera, chiese piene, gente che cantava; sentivo che c'era una dimensione di religiosità straordinaria... Ma un giorno mi riferirono che avevano tenuto un indigeno legato a un albero e lo avevano punito, fustigandolo, proprio mentre ero in visita in quel luogo...». Secondo un'usanza vecchia quanto la conquista, infatti, nei primi anni del suo ministero don Samuel svolse le visite pastorali nelle diverse zone della diocesi andando ad alloggiare dai signori delle fincas (le aziende agricole). Da lì incontrava il clero, i proprietari terrieri e in alcune occasioni anche gli indigeni.
Quella però sarebbe stata l'ultima volta: il punto di rottura e non ritorno con una prassi che tradiva uno spirito di discriminazione mai superato; in seguito avrebbe accettato solamente l'ospitalità dei sacerdoti o della gente del popolo, pranzando con gli indigeni e attirandosi - manco a dirlo - l'ostilità furiosa dei ricchi.
Ormai però aveva definitivamente capito che non si può banalmente pensare che esistono i ricchi "e" i poveri, al di fuori di un rapporto di causa-effetto; ma piuttosto che i poveri devono esistere affinché possano esistere i ricchi. E, di fatto, anni dopo, avrebbe spiegato alla comunità internazionale, senza tema di smentita che «il primo mondo esiste soltanto perché esiste il terzo...».
Ben presto, un altro avvenimento segnò definitivamente la sua svolta, sconvolgendo l'autocoscienza della Chiesa universale e di quella latinoamericana in particolare: il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Tornò pertanto a Roma e con i suoi trentasette anni fu uno dei padri conciliari più giovani. Di quell'evento due aspetti colpirono particolarmente la sua attenzione: il diverso approccio al mondo e alle culture non europee, espresso dalla Gaudium et Spes; e la nuova coscienza di Chiesa, intesa non più nel senso gerarchico del Vaticano I, ma quale «popolo di Dio», secondo la dizione di Lumen Gentium.
Il nuovo soggiorno romano gli permise anche di incontrare e stringere amicizia con alcune grandi figure di vescovi latinoamericani che, protagonisti al Concilio, lo sarebbero stati ancor più nel corso della II Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano, riunitasi a Medellín (Colombia) nel 1968: autentica attualizzazione del Concilio per il subcontinente amerindio e genesi della Teologia della Liberazione. Tra loro Leonidas Proaño e Hélder Camara.
Tornato in Chiapas, don Samuel non si accontentò di arricchire la propria libreria con i nuovi documenti portati da Roma, ma - testi alla mano - percorse l'intera diocesi per farli conoscere ed attuare: erano le basi della Chiesa autoctona, cui avrebbe dedicato - in mezzo a tribolazioni e sofferenze, per pesanti «incomprensioni» ecclesiali - il resto della vita.
Era appena iniziato questo cammino, che già all'orizzonte si profilava un'altra tappa epocale. Il I Incontro Missionario Continentale del 1968, a Melgar in Colombia, fu l'occasione per ripensare il valore delle culture indigene e la loro negazione da parte di un modello di evangelizzazione (non ancora totalmente superato) che per secoli aveva confuso il Vangelo con la cultura europea.
La pastorale di don Samuel fece così un deciso salto di qualità: dall'essere una pastorale indigenista, che considerava ancora quelle popolazioni soltanto quale oggetto di cure provvidenti, ad una pastorale indigena, nella quale loro stessi sarebbero diventati protagonisti del proprio riscatto e soggetti attivi della missione ecclesiale.
Peraltro, da tempo s’era reso conto che non poteva limitarsi a insegnare il castigliano agli indigeni, perché acquistassero valore sociale; ma doveva lui stesso imparare le loro lingue, per immergersi nella loro culture.
L'occasione fu il I Congresso Indigeno, svoltosi in Chiapas nell'ottobre del 1974, per celebrare il IV centenario della nascita di Bartolomé de Las Casas. L'intenzione del governatore, cui si deve l'idea originaria, era in verità quella di promuovere una rassegna accademica tra specialisti «lascasiani», ma fece l'errore di affidare la realizzazione a don Samuel, che a sua volta la girò alle comunità indigene.
Fu una sorpresa per tutti, vescovo compreso: la mattina del 12 ottobre arrivarono a San Cristóbal 2000 delegati eletti democraticamente dalle loro comunità. Si trovavano così riuniti per la prima volta dopo cinque secoli. Dibatterono per tre giorni su temi da loro scelti, utilizzando le proprie lingue, prontamente tradotte per essere intese da tutti e stilarono alcuni documenti finali.
A distanza di quasi trentasette anni, è interessante notare le profonde affinità tra le rivendicazioni avanzate in occasione di quel congresso e quelle proposte, vent'anni più tardi, dagli stessi indigeni, insorti nel movimento zapatista.
Non solo: furono essi a costituire immediatamente la base della nuova pastorale diocesana. Così gli indigeni divennero gli attori principali dell'inculturazione del Vangelo, fino a tradurlo nei cinque idiomi locali. In una regione che contava circa un 80% di popolazione indigena, non era, infatti, possibile, secondo don Samuel, che la Chiesa continuasse a parlare una sola lingua, per di più importata.
Per tali premesse, lunghe una vita, apparve immediatamente il candidato naturale per la mediazione tra il governo federale e gli insorti zapatisti, che occuparono gran parte del territorio chiapaneco il 1° gennaio 1994.
Anche in questa occasione non seguì formule già sperimentate, tanto formali quanto fallimentari. Elaborò piuttosto un nuovo modello di mediazione, esplicato nell'immagine del «niño gordo y del niño flaco» (del bambino grasso e del bambino magro). Disse, infatti: «se due bambini, uno grasso e l'altro magro, giocano sull'altalena a bilancia, questa non si muove. Uno resterà fermo in alto e l'altro in basso e nessuno si divertirà. E a nulla servirà che il facilitatore/mediatore si metta nel centro, ad equa distanza, sul perno della bilancia. Dovrà invece mettersi dalla parte del bimbo magro, alla "giusta" distanza: allora sì, l'altalena si muoverà ed entrambi saranno felici».
Così don Samuel non volle porsi «al di sopra delle parti», ma si schierò decisamente e dichiaratamente dalla parte delle «giuste richieste degli indigeni»... e soltanto la grande autorevolezza che gli veniva riconosciuta da entrambe le parti poté permettergli di osare tanto.
E' questo l'uomo, il fratello, il vescovo, soprattutto l'amico, che abbiamo conosciuto in questi anni. El caminante, come da più parti è stato definito, per quella sua abitudine di non starsene mai fermo. Prima, con gli scarponi ai piedi, andando su e giù per le montagne del Chiapas, a incontrare le comunità; poi quando le gambe gli si sono fatte più pesanti, con l'aereo, in giro per il mondo.
Quando infine nel maggio 2000 dovette lasciare la diocesi, per raggiunti limiti di età, i suoi indigeni lo nominarono loro «portavoce a vita». Ed è quanto ha continuato a fare fino all’ultimo respiro, imperterrito ambasciatore, non soltanto dei diritti dei popoli indigeni, ma – molto più – della loro coscienza planetaria. Presidente emerito, ma mai pensionato, anche della rete internazionale dei Comitati “Oscar Romero”.
Ora che la sua Pasqua si è compiuta, ci sentiamo inevitabilmente un po’ orfani, ma anche terribilmente responsabilizzati, dall’aver incrociato sul nostro cammino un autentico profeta. Per questo, col groppo che serrava la gola di Eliseo, mentre vedeva rapire in cielo il suo maestro, anche noi vorremmo urlargli: «Tatic, lascia qui due terzi del tuo spirito!».
24 gennaio 2011, nella Pasqua di don Samuel Ruiz