Il nostro primo giorno a Kabul
La pioggia con cui Kabul ci ha accolto all’aeroporto ieri mattina è insolita per questo periodo nell’anno. E quanto vorrei fosse una pioggia purificatrice delle violenze, dei fanatismi, della guerra e della sua idiota ideologia... di ogni cosa che ha a che fare con la distruzione dell’umanità di questa gente che abbiamo solo cominciato ad incrociare. E poi soldati e polizia molto armata dappertutto. Palazzi fortificati da cinture di cemento e sacchi di sabbia. Ma non mi interessa fare un diario. Gli aquiloni ci sono davvero e sono tanti. Li fanno volare i bambini dai cortili, dalle strade, dai tetti delle case. Siamo una delegazione di otto persone. Tra noi c’è Paul, portavoce del coordinamento dei familiari delle vittime dell’11 settembre. Sin dall’inizio hanno fatto sapere di non credere nella guerra come risposta alla tragedia di dieci anni fa. E di questa guerra sono stanchi tutti. Tutti tranne quelli che ne ricavano profitti. Abbiamo cominciato a parlare con i rappresentanti di associazioni di cooperazione umanitaria, dei diritti umani, delle donne... la sensazione comune è che dopo dieci anni, di questa guerra si sia perso il bandolo. Nessuno più la vuole, ma nessuno ha il coraggio di dire basta. Se non la gente.