Kabul dieci anni dopo
Kabul sarebbe una città bellissima. Ma oggi è ancora tutta da sognare. E da disegnare. Come l’intero Paese. Siamo alla vigilia del decimo anniversario dall’inizio dei bombardamenti e dalla presenza straniera sulla propria terra e nessuna delle persone che abbiamo incontrato ha espresso una sola parola di soddisfazione. Delusi, amareggiati, arrabbiati... gli afghani. Gente comune e rappresentanti di organizzazioni civili. Ma anche diplomatici e responsabili di istituzioni. Si sarebbe potuto fare tanto. Costruire. In tutti i sensi. E invece si è perso tempo prezioso. È stato dato appoggio e spazio ai “signori della guerra”, alla corruzione dilagante che erode risorse e speranze. All’oppio che ora scorre anche nelle vene dei giovani afgani e corre con i narcoafgani ben oltre i confini nazionali. Alle rancorose e ataviche divisioni tribali. In nome della sicurezza da garantire a se stessi, chi doveva incontrare, ascoltare e aiutare la gente, è rintanata in bunker che non riesco nemmeno a descrivere. Ma Dio, che da queste parti invocano con un nome diverso dal mio, non è sterile. Ha messo nel cuore di qualche donna e uomo di questa terra la sana inquietudine che non si piega alla rassegnazione. Sono donne e uomini che non hanno mai smesso di contribuire a piccoli passi alla promozione delle donne, a denunciare la corruzione, a promuovere i diritti umani, a informare senza padroni. Una luce diversa da quella delle esplosioni e dei bombardamenti. L’altra faccia di una terra che sarebbe bella.