Ieri a Kabul
Ieri a Kabul c’è stata tensione per tutta la giornata. Razzi, kamikaze, sparatorie per strada. È inevitabile che quando conosci i luoghi e soprattutto le persone, cerchi di sapere di più, di andare a scovare le immagini, di tentare una telefonata, di chiamare l’amico giornalista. Il tutto avveniva – e per la prima volta in dieci anni – nella cosiddetta zona verde. A dispetto del nome, non è quella dei giardini ma quella delle ambasciate, della presenza straniera, degli obiettivi sensibili, i cosiddetti target. Nei giorni di nostra permanenza a Kabul siamo passati decine di volte in quelle stesse strade dove ieri per molte ore sembra essersi scatenato l’inferno. In più occasioni abbiamo visitato l’ambasciata italiana sul cui muro di cinta ieri è caduto un razzo. Insomma c’è un sentimento di familiarità con quei luoghi che annulla d’un colpo la distanza geografica e te li rende coinquilini. Mentre l’operazione terroristica era in corso non potevo fare a meno di pensare al senso della presenza militare straniera in città. Prima di visitare Kabul avevamo ingenuamente pensato che servisse a proteggere gli abitanti di Kabul e invece abbiamo compreso che tutta l’attenzione, le energie e le risorse sono esclusivamente concentrate a presidio e garanzia degli insediamenti stranieri. Traducendo: un’impresa militare in un altro paese che si concentra a difendere se stessa. Nonostante l’attacco, ieri nelle strade di Kabul i più garantiti risultavano essere gli stranieri e i più esposti i cittadini inermi.