Un nobel "della" pace
Vorrei che memorizzassimo la motivazione: Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee e Tawakkul Karman hanno ricevuto il “Nobel per la pace 2011” “per la loro lotta nonviolenta.... a favore del processo di costruzione della pace”. Presidente rieletta della repubblica liberiana la prima, avvocata pacifista (presiede un organizzazione femminile interafricana per la sicurezza e la pace) e promotrice dello sciopero del sesso che indusse il regime a chiamare le donne al tavolo delle trattative la seconda, giornalista islamica di un partito conservatore e fondatrice di “giornaliste senza catene” la terza (che ha già dedicato la nomination a tutti i “militanti della primavera araba”) si segnalano per essere donne che, pur ristrette nell'ambito delle tradizioni maschili e maschiliste dei loro Paesi, hanno fatto politica rendendola concretamente nuova per il rigore e il coraggio con cui hanno praticato (e non solo predicato) la nonviolenza e la pace.
Forse non è il “Nobel alle donne africane” che molte organizzazioni sostenevano, ma è davvero notevole il valore che esce da scelte non facili. Premi “per la pace” ne abbiamo visti molti, esemplari o discutibili; ma in genere si trattava di nobili (o meno nobili) negoziatori dietro i quali non c'era una seria attività di negazione di fatto della guerra. Le donne sanno comportarsi come gli uomini e, infatti, alcune partecipano alle azioni militari più violente; ma ai nostri giorni appare più chiaro alla logica femminile, anche a livello di responsabilità istituzionali e partitiche, che la violenza sperimentata nelle famiglie (Ellen non ha mai nascosto di aver subito maltrattamenti da parte del marito) produce disastri privati, ma è la stessa che rende insanabili i conflitti sociali e di potere e che si rivela non solo pura follia, ma spreco delle risorse dei popoli. La sapienza dolorosa delle donne produce una nuova cultura fatta di ostinazione: nel mondo che chiamiamo civile nonostante l'incapacità di controllare egoismi, istinti predatori, sete di potere, le donne restano ancora incapaci di accettare fino in fondo l'irrimediabilità della violenza, che conoscono fin troppo bene sul loro corpo.
È un tempo straordinario, perché non siamo ancora omologate fino in fondo dal sistema che globalizza gli standard del modello unico gerarchico e competitivo. Ed è straordinario che siano “politiche” fino in fondo le storie di queste donne che ci diranno di sé a Stoccolma nei loro discorsi rituali, ma che rappresentano davvero una politica più “di genere” di quanto non sempre riusciamo a fare noi: impegnate “a favore della sicurezza delle donne e dei loro diritti”, hanno tutte agito per il bene comune del loro Paese, hanno praticato la resistenza a regimi dispotici, sono state incarcerate, ritenute traditrici, ma anche sostenute dai loro popolo, soprattutto delle donne, senza arrendersi. La Liberia ha subito una guerra civile durata quattordici anni che ha prodotto 250.000 morti (i liberiani sono circa quattro milioni) ed Ellen (master in economia ad Harvard: non dimentichiamo che non conosciamo assolutamente la realtà dei Paesi che chiamiamo in via di sviluppo e in cui emergono donne dotate di grandi competenze) è riuscita a guidare il Paese fuori dalle rovine. Probabilmente ai poteri costituiti (e a molti uomini anche dei loro partiti) darà fastidio questo riconoscimento e sono prevedibili le accuse di cedimento all'Occidente, di trasgressione, di tradimento. Ma quelle parole: nonviolenza e pace restano a segnare obiettivi perseguiti con coerenza.
Un esempio anche per noi. Donne e uomini.