Lettera aperta all’Ordinario Militare d’Italia, S.E.R. Mons. Vincenzo Pelvi
Caro fratello Vescovo,
le chiedo anzitutto di voler benevolmente accogliere lo stile non formale che ho scelto per questa lettera, proprio perché in essa esprimo questioni di fede e dunque di qualcosa che ci tiene strettamente in comunione, appunto come fratelli nello stesso Vangelo, lei come pastore e io come semplice fedele, da decenni impegnato nell’educazione alla pace con il movimento Pax Christi.
Da tempo pensavo di scriverle per aprire un dialogo sereno, sincero e fruttuoso in tema di pace e nonviolenza, Chiesa e forze armate. Infine, ecco giunta la decisione di non rinviare più, poiché in questi giorni ho appreso la notizia che il Beato Papa Giovanni XXIII sarebbe stato proclamato – o potrebbe esserlo, non mi è ben chiaro – Santo Patrono dell’Esercito Italiano.
Quella dei cappellani militari e di una “Chiesa militare” è una scelta che, alla luce del messaggio evangelico, proprio non capisco. Sia ben chiaro, non ho alcuna intenzione di negare che coloro che appartengono alle forze armate abbiano il diritto di ricevere una cura spirituale; il problema semmai è di una Chiesa che non si pone coerentemente in maniera dialettica nei confronti dell’istituzione militare, ma vi prende parte: sceglie di essere militare tra i militari. È come se i sacerdoti che, meritoriamente, lavorano fianco a fianco coi tossicodipendenti, dovessero necessariamente drogarsi per svolgere quel loro servizio! Se lo immagina un don Ciotti convinto di doversi dare all’eroina per poter fondare e animare il Gruppo Abele? Perché, allora mi chiedo, i sacerdoti che svolgono il ministero pastorale con le nostre sorelle e i nostri fratelli militari entrano nei ranghi delle forze armate? Dove va a finire il loro potenziale critico e profetico, se assumono l’infausta condizione di coloro ai quali dovrebbero anzitutto insegnare, alla luce della nonviolenza di Gesù, che la divisa e le armi vanno appese immediatamente e definitivamente al chiodo? Proprio come la siringa. Perché la guerra è la droga dei potenti: di essa si inebriano e si esaltano, con essa perseguono e mantengono i loro deliranti privilegi, ma a causa di essa, poi, finiscono miseramente nella polvere.
In fondo la questione è tutta qui. Ribadire con coraggio che gli eserciti sono nati per fare le guerre e non la pace e che la violenza è l’elemento caratterizzante la loro ragion d’essere. E questa cruda e tremenda realtà non può essere certo annullata o nascosta cambiando nome alle guerre, chiamandole “missioni di pace”, per renderle più accettabili all’opinione pubblica e per sottrarle goffamente alla condanna della nostra Costituzione. E non basta neppure affidare alle forze armate compiti di protezione civile, per esibire un volto che non hanno e una speranza che non possono né offrire né costruire. Talora nutro il dubbio che in Italia si mantenga una Protezione Civile debole, proprio per dare la possibilità ai militari di beneficiare d’una pennellata di utilità sociale. Auguro al popolo di questo Paese che sia solo un pensiero esageratamente sospettoso.
È ora, fratello Vescovo, di dire una parola chiara: non si può servire Dio e la guerra. O l’uno o l’altra. Lei e i suoi cappellani, purtroppo, a causa del doppio status di pastori e militari, mi sembra che di fatto stiate confondendo due realtà inconciliabili. È ora, invece, di dire la verità a quei giovani i quali, pur di sfuggire alla disoccupazione nella quale vengono mantenuti da uno Stato incapace, si affacciano all’idea di entrare nelle forze armate: la loro attività non avrà nulla a che vedere con la vera pace, e l’orrore delle armi e della violenza – falsificato da chi è interessato al grande affare della guerra – sarà il loro pane quotidiano.
Concludo ritornando al punto di partenza: papa Giovanni XXIII. È pur vero che in gioventù egli ha conosciuto la vita militare e la guerra, ed è stato cappellano militare, ma ciò non basta, a mio avviso, a giustificare la scelta di farne il Patrono dell’Esercito! Al contrario, voglio immaginare che proprio il raccapriccio in diretta di tante inutili stragi lo abbia portato poi, decenni dopo, a promulgare quella lettera enciclica, la Pacem in Terris, che ancora oggi è un canto di pace inascoltato. È proprio lì che si legge – i cappellani militari dovrebbero insegnarlo nelle loro omelie e catechesi – che “Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda”. Nell’era atomica, ritenere che la guerra possa ristabilire i diritti violati alienum est a ratione, è cosa estranea alla ragione. Follia pura. La difesa nonviolenta, civile e disarmata, è molto più sensata e coraggiosa di quella militare armata; essa sta dando concretezza agli aneliti di libertà e riconciliazione ai quattro angoli del mondo, nonostante una cortina di silenzio gravi su di essa. In Italia la legge 230 del 1998 (art. 8) impegna lo Stato ad attuare “forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta”: perché i cappellani militari non chiedono a gran voce che cessino le scandalose spese per le armi e si diano ad essa rilievo e risorse? Questo grido sì che si porrebbe sulla scia di Colui che, senza ambiguità, disse a Pietro che voleva difenderlo: “Rimetti la spada nel fodero!” (Gv 18,11).
È ora che la “Chiesa militare” chiuda i battenti e si spalanchino le porte della “Chiesa nonviolenta”, da annunciare a tutti. Militari compresi.
Con un abbraccio fraterno e sincero e un vivo ringraziamento per l’attenzione.
Napoli, 26 ottobre 2011