ULTIMA TESSERA

Nuovi italiani

È tempo di vincere ogni barriera e di allargare l’idea e la legge sulla cittadinanza.
Le difficoltà di chi vive nella propria terra da straniero.
Khalida El Khatir (Filomena la rete delle donne)

Da “nuova” italiana figlia di genitori immigrati, credo sia importante aprire questa mia riflessione ringraziando in primis il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che con coraggio e determinazione, davanti a un pubblico in parte sordo e in parte distratto, continua a difendere il diritto elementare alla cittadinanza italiana di chi nasce in Italia da figli di immigrati.
Quella che agli occhi della stragrande maggioranza dei cittadini europei è un’ovvietà, riconoscere il diritto di cittadinanza a chi nasce in un Paese aldilà delle sue origini culturali, linguistiche o religiose, in Italia sembra ancora una lontana promessa in attesa di un chissà quale santo che dovrà compiere la grande rivoluzione.
La realtà è, invece, molto più semplice di quello che sembra. Basterebbe appunto guardare alla realtà delle nostre città e delle nostre scuole, almeno per una volta senza pregiudizi o stereotipi. La nostra società rispetto a vent’anni fa è profondamente cambiata ed è destinata a cambiare sempre più. I numeri, senza troppe parole, ce lo dicono tutti i giorni. Cinque milioni di cittadini di origine straniera, circa un milione di minori nati o cresciuti in Italia. Una presenza che, a testimonianza di tutti gli esperti del mondo dell’immigrazione, rappresenta oggi per l’Italia una condizione imprescindibile per garantire la sopravvivenza e un’eventuale crescita dell’intera Italia. Nuovi italiani compresi.
A partire da questo dato di fatto, occorre aggiungere che noi “nuovi” italiani non ci sentiamo per niente ospiti in questo Paese. A coloro che ci vorrebbero fuori dai confini oggi stesso, che ci offendono per il nostro nome, il nostro colore della pelle o la nostra religione, diciamo con grande orgoglio che noi prima di tutto ci sentiamo italiani. Fieri e orgogliosi di fare parte di questo Paese, con tutte le difficoltà e gli ostacoli che viviamo tutti i giorni. D’altronde non potrebbe essere diversamente perché questo Paese è dove siamo nati e cresciuti, di cui abbiamo amato la storia e la cultura, in cui i nostri padri hanno potuto intravedere realizzati alcuni dei loro sogni. Questa terra è anche la nostra e noi non ci stiamo a fare la parte dei figli di nessuno. Siamo figli dell’Italia e questo l’Italia ce lo deve riconoscere.
È giunta, appunto, l’ora di fare questo passo di civiltà e metterci finalmente alla pari di tutte le maggiori democrazie in Europa e Stati Uniti riconoscendoci pari cittadinanza, e quindi pari dignità. Cittadinanza per tutti noi significa mobilitarsi in prima persona per il cambiamento della propria condizione e del proprio contesto, attivarsi per decidere sul proprio presente e sul futuro comune che ci attende. Questa per me è la pratica della cittadinanza. Significa partecipazione, responsabilità, condivisione e soprattutto uguaglianza. E allora non si capisce perché oggi si impedisce a chi nasce in questo Paese per 18 lunghi anni di essere uguale a tutti gli altri. La legge attuale ci dice che il vincolo principale è il sangue. Si è italiani perché di sangue italiano. Ora nel 2012 vorrei che qualcuno ci spieghi che senso abbia parlare ancora di sangue italiano o sangue arabo. Sangue cinese o sangue rumeno. Ma mio figlio Adam, nato a Roma da due nuovi italiani di origine marocchina quale sangue gli scorre nelle vene? Io credo che l’unico sangue sia quello umano. Questo ci è stato insegnato. E chi sostiene il contrario come i sostenitori del famigerato Ius Sanguinis sono invitati, se ne hanno il coraggio, di andarlo a spiegare a Adam e ai suoi compagni d’asilo. Che lo spieghino alle migliaia di bambini che ormai popolano le nostre scuole e lo spieghino anche ai loro amichetti figli di italiani. Questa è una vergogna che non possiamo più tollerare.
Il lungo percorso che deve intraprendere un bambino nato in Italia è lungo e tortuoso. Per 18 anni si rimane in Italia, il Paese dove si è nati, con un permesso di soggiorno. Si fanno lunghe file in Questura, all’ufficio stranieri, per chiedere il rinnovo di questo permesso. A 14 anni si depongono le proprie impronte digitali. E dopo 18 anni di ininterrotta permanenza in Italia, finalmente si può chiedere di diventare cittadini italiani. Nella speranza sempre che non ci sia qualche intoppo burocratico o qualche nuova interpretazione della legge. Nel frattempo per chi nasce in Italia non vi è alcuna certezza sul futuro e soprattutto si è costretti a convivere con una evidente discriminazione.
Non ci si può immaginare nel frattempo con libertà né avvocati, né giornalisti. Magistrati, poliziotti, impiegati pubblici, diplomatici, insegnanti e persino autisti dell’autobus. Tutte professioni riservate a chi ha la cittadinanza italiana. E quante volte i figli di immigrati nati in Italia, solo perché sfortunatamente non di sangue italiano come stabilisce una legge arretrata, non partono per la gita a Parigi o Londra perché il permesso di soggiorno è scaduto o in fase di rinnovo. E allora credo sia importante rivolgere un appello anche a tutte le mamme italiane che ogni mattina accompagnano i loro figli a scuola insieme ai tanti altri bambini figli di genitori non italiani. La battaglia per riconoscere questo diritto fondamentale è anche la vostra battaglia perché quei bambini amici dei vostri figli sono innanzitutto figli di questo Paese. Spero davvero con tutto il mio cuore che finalmente questa ingiustizia sia eliminata innanzitutto per il bene di questo nostro Paese. Che la nuova domanda sia “Come ti chiami?” e non più “Da dove vieni?”. Che la nuova Italia vada finalmente fiera di un nuovo modello di convivenza. Frutto della straordinaria storia e civiltà che questo Paese, che nel corso dei secoli, ha saputo trasmettere in tutto il mondo. Noi nuovi italiani e nuove italiane, insieme a tutti coloro che credono nell’uguaglianza tra le persone, non ci rassegneremo.

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