Un patriarca gentile
Lidia Menapace è una protagonista dell’Italia pacifista e nonviolenta. Il suo sogno diurno è di arrivare finalmente a una società pacificata, non solo formalmente ma culturalmente. Siamo permeati da una cultura segnata dal principio maschile, che è il principio che ha teorizzato e realizzato la guerra come monopolio della forza impositiva, che ha condotto gli eserciti a occupare terre, a conquistare continenti, ad annientare gli altri che non si riconoscevano in quel super Ego dominante (quante donne hanno introiettato quello schema, fino a fare del potere un esercizio della volontà di potenza e di dominio!). È venuto il momento di fare un cambiamento radicale dando peso politico alle donne nei parlamenti e nelle istituzioni, ma anche purificando il vocabolario dal linguaggio uniformato alle parole del maschio.
Padre Balducci capiva che su questo versante si giocava la partita della nonviolenza. La Menapace lo ricorda con affetto, ma anche con una certa ironia: “Balducci era un patriarca gentile. Le sue aperture erano vere, importanti, positive. Eppure era anche lui dentro quella cultura, che è la cultura che ha segnato, e ancora oggi segna, la formazione dei preti. Lo riconosceva lui stesso. E con la sorella Beppina ci scherzavamo sopra: ‘Sì è vero, Ernesto è proprio un patriarca’, diceva. Da questo punto di vista era un monoteista ortodosso”. In realtà, la Bibbia è un testo pluralista. La Genesi è un manifesto della relazione di genere, fra il maschile e il femminile. Nel Vangelo le donne stavano al centro della scena, non erano spettatrici di un evento, ma co-protagoniste. Tutto questo Balducci si sforzava di capirlo e di comunicarlo, soprattutto negli ultimi anni, quando ha lavorato sulle biografie di Gandhi, di La Pira, di san Francesco. E proprio nel libro dedicato al poverello di Assisi troviamo una delle sue aperture più belle nel capitolo intitolato “Francesco e le donne”. Però è rimasto in lui questo segno patriarcale che era fortemente presente anche nella Chiesa di base più aperta e affascinante.
I primi anni Novanta sono stati brutali per questa chiesa non allineata. Nel 1992 morirono padre Balducci e padre Turoldo, nel 1993 morirono don Tonino Bello e don Italo Mancini, nel 1996 don Giuseppe Dossetti. Fu un deserto della profezia.
Davvero. Una perdita enorme, un vuoto incolmabile. Erano uomini di chiesa che sentivi vicini, compagni di viaggio. Avevano un linguaggio popolare, avevano da tempo abbandonato la tonaca, la talara, avevano una libertà di essere se stessi che li rendeva affascinanti. Erano simpatici, avevano il dono dell’ironia e della umiltà, sapevano mettersi in discussione e rivedere alcune posizioni di pensiero. Erano uomini-ponte anche rispetto ai non credenti. Si sentiva una vicinanza di idealità e di passione per l’uomo. Sono stata compagna di studi all’università con Turoldo e lo ricordo fiammeggiante, austero in certi casi, ma anche pieno di battute e di ironia. Balducci l’ho incontrato tantissime volte in dibattiti, convegni, incontri pubblici. Era un grande oratore. Riusciva a spiazzarti con riferimenti culturali, con la sua versatilità analitica. Ma quando ti sedevi a tavola era un vulcano di simpatia. Aveva il dono dell’empatia.
Hai dei ricordi immediati di Padre Balducci?
Sì, mi viene alla mente un incontro che feci con lui alla Casa del Popolo di Firenze. Faceva un freddo maledetto. Ricordo che dissi: “Nella storia umana Gandhi e Hitler non sono piovuti dal cielo. Sono stati fatti dal popolo. C’è una dialettica fra pace e guerra, fra il bene e il male nella storia. Può prevalere Hitler o può prevalere Gandhi, questo dipende da noi”. Balducci si voltò verso di me e mi disse: “Questa te la rubo”. Lui era fatto così. Aveva una intelligenza immediata. Riusciva a carpire elementi sparsi qua e là e a inserirli in una sua Weltanschauung personale elaborandola come solo lui sapeva fare. C’era tanta passione civile, politica, culturale, teologica. Tutto il movimento cattolico del cosiddetto dissenso aveva un fervore, anche polemico, che oggi difficilmente si riscontra. C’erano scontri, diatribe fra posizioni diverse, ma sempre all’interno di un rapporto fraterno e amichevole. Sullo sfondo c’era la passione per le sorti del mondo e la volontà di cambiare i meccanismi dell’ingiustizia e della violenza. Balducci aveva un timbro più politico, civile. Turoldo era un poeta e un mistico, anche se i suoi versi erano spesso versi di denuncia, taglienti versi che rileggevano i fatti scandalosi del momento provocando le coscienze. Bello era l’uno e l’altro, fondeva insieme la visione mistica e quella politica.
Il Pci non capì la forza di questi straordinari uomini-ponte. Ci arrivò Togliatti, quando aprì ai cattolici, ma il partito non ha mai compreso quale fosse davvero l’importanza “politica” di uomini come Balducci, Turoldo, Mazzolari...
Oggi in tanti diciamo, sconsolati: quanto ci mancano questi profeti!
Che cosa ti ha colpito di più di Padre Balducci?
La sua versatilità culturale, certamente, ma anche la sua grande innocenza. Non ha mai avuto un cedimento sentimentale. Aveva una purezza perfino ingenua, che è forse il risultato di quello che si diceva all’inizio, ossia la rigidità di una disciplina cattolica che ha forgiato l’educazione dei preti. Balducci era molto gentile, ti dava segni di grande affetto personale, ma sempre dentro questa ottica un poco patriarcale. Era un uomo di fede profonda e di coerenza, non tanto su singole posizioni, ma in generale: fedele nella sua libertà e libero nella sua fedeltà. Un servizio che dobbiamo fare all’Italia è di rieditare i libri, diffondere gli scritti, far girare le idee, perché c’è ancora una straordinaria attualità nel pensiero di Balducci e nella sua visione ideale.