Il tramonto dell'utopia
A vent’anni dalla morte di padre Ernesto Balducci (25 aprile del 1992) è prima di tutto un senso di tremenda nostalgia che accompagna i volti e i luoghi della sua memoria. Quasi uno spaesamento per una storia che è schizzata così velocemente su traiettorie che nemmeno il fuoco della profezia poteva immaginare. Tutto si è consumato troppo in fretta. Il Novecento si è chiuso nel peggiore dei modi. Gli ultimi dieci anni sono stati il tradimento dei precedenti quaranta. La guerra è tornata al centro della politica, la conquista delle libertà individuali è diventata neoliberismo spinto (oggi subiamo gli effetti della speculazione finanziaria e la politica è davvero ancella dell’economia) e la Chiesa è rientrata nel recinto della normalizzazione sognando l’antico, quando la messa di faceva in latino e la Democrazia cristiana raccoglieva nel suo imbuto il gregge di Dio.
Ci si domanda spesso che cosa avrebbe detto padre Balducci, o che cosa avrebbe cantato padre David Maria Turoldo (anche lui, morto in quel freddissimo anno 1992 che a molti ricorda davvero la stagione del tramonto).
Eppure, “il sogno di una cosa” era apparso, nel giardino autunnale, come un evento del tutto nuovo, come la nascita di un’aurora planetaria che abbandonasse per sempre la notte della tempesta. La possibilità di un riscatto era lì, a portata di mano. Ma bisognava passare attraverso il rito drammatico della morte (e del cristianesimo come figura storica oramai consunta e logorata dalle logiche del sistema di potere che da Costantino in avanti avevano assorbito in toto quelle del mondo, e della civitas, come organizzazione della vita segnata dall’ideologia del dominio e del potere). Oggi siamo costretti a dire che la svolta è ancora di là da venire e che sull’umanità batte ancora l’ombra della morte.
Oltre il ricordo
Non ci rimane che il ricordo. E, nel ricordo, tornano in superficie gli episodi più significativi della vita di Padre Balducci, forse quelli che hanno un senso e possono valere come direzione, come navigazione.
Innanzitutto le origini poverissime (Balducci nacque a Santa Fiora, un paesino nell’entroterra grossetano sul monte Amiata, nel 1922). In vari scritti autobiografici appare il riferimento a don Lorenzo Milani come esperienza di vita opposta alla sua: “Lorenzo Milani – annota Balducci – proveniva da un ambiente alto borghese. La sua scelta evangelica gli ha fatto fare una calata a picco nel mondo dei poveri. In questa esperienza egli ha portato una volontà autopunitiva, di rigetto quasi furioso di tutto lo schema borghese della vita fino al rifiuto del gioco per i suoi ragazzi. Invece la famiglia in cui io sono nato è vissuta, fino a che non l’ho lasciata, ai margini fra la miseria e la povertà”. Balducci ironizza spesso sulla sua “fuga dal mondo”, quando, giovanissimo lascia il paese natale per entrare nel convento degli Scolopi a Firenze: “Lasciando quella realtà e entrando in convento – afferma – io sono passato dalla vera povertà al mondo organizzato. Prima ero figlio di poveri, vivevo con quello che la natura ci donava e poi, improvvisamente, ho fatto il voto di povertà per entrare in convento e da allora non mi è mancato più nulla”.
Una delle pagine più simpatiche della sua autobiografia ricorda il lavoro che fece come fabbroferraio: “A dodici anni – ricorda Balducci – invece di predicare come Gesù nel tempio, indossai la piccola tuta ed entrai nell’officina di un fabbroferraio. Per sei mesi feci le mie otto ore di lavoro quotidiano: aiutavo a ferrare i cavalli o gli asini, a costruire reti da letto. Feci, insomma, il sacrifico di Abramo. E quei sei mesi furono una scuola straordinaria. Il fabbroferraio si chiamava Manfredi, era un anarchico perseguitato dal fascismo. Nel gabinetto dell’officina campeggiava una scritta: ‘Saranno grandi i papi / saran potenti i re / ma quando qui si seggon / son tutti come me’. E bestemmiava con grande fantasia. Mia madre mi aveva premunito contro questo scandalo, ma alla lontana, per merito di Manfredi, sono riuscito a distinguere la bestemmia proletaria, che è un fenomeno religioso, dalla bestemmia borghese, che è ributtante cinismo. Quando gli comunicai che il giorno dopo sarei partito per il collegio degli Scolopi, mi mise le mani sulle spalle e mi disse: ‘Non ti lasciare imbrogliare dai preti!’. Trent’anni dopo, quando i giornali parlarono di me condannato in tribunale per aver difeso il primo obiettore di coscienza, incontrai per caso Manfredi, che non avevo più rivisto. Mi toccò la spalla come se ci fossimo lasciati il giorno prima: ‘Ernesto – mi disse – non ci sono riusciti’. La sua fierezza mi toccò nel profondo come una benedizione”.
Pochi anni più tardi, quando Balducci era già in seminario per essere formato alla nuova dimensione religiosa, avvenne un fatto che segnò per sempre la sua vita. Nel 1944 un gruppo di 77 minatori, suoi compagni di scuola, furono massacrati dai nazisti presso la miniera di Noccioletta (Massa Marittima). Fu un episodio che segnò profondamente le comunità dell’Amiata. Balducci fu chiamato a officiare la messa funebre. Nel ricordare, tanti anni dopo, quel momento drammatico egli assunse su di sé come un senso di colpa, come un sentimento di tradimento verso i compagni uccisi dalla furia nazista, che diventa un tradimento globale se riferito all’atteggiamento con cui si giustificano le guerre contemporanee: “Quando le bare furono portate al nostro paese io non ero uno spettatore, ero un traditore. Me ne ero andato per una strada dove uno passa per rivoluzionario solo perché scrive un articolo coraggioso, che potrebbe perfino impedirgli la carriera. Ma mentre Eraldo, Mauro, Luigi e gli altri hanno pagato con la vita la fedeltà al vero, io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo? Celebriamo la Resistenza e nel frattempo lasciamo che i ‘nazisti dell’anno duemila’ vadano disseminando su tutto il pianeta gli ordigni della morte. Questo sì che è un tradimento”.
Fede e storia
Balducci iniziò a rimeditare le origini della sua terra intorno al 1963 quando avvenne la prima grande svolta della sua vita. Erano gli anni dell’esilio romano, gli anni delle diatribe col Sant’Uffizio per via della sua attività di collaborazione con l’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira. In quell’anno scoppiò il caso di un giovane cattolico, Giuseppe Gozzini, che scelse di sfidare le istituzioni proclamandosi obiettore di coscienza. Balducci intervenne pubblicamente in sua difesa con un articolo pubblicato dalla rivista comunista “Rinascita” con il titolo “La Chiesa e la Patria”. L’articolo provocò un terremoto politico facendo divampare il dibattito intellettuale sul senso del dovere e il rispetto delle istituzioni. Balducci venne emarginato dalla Chiesa e solo pochissimi teologi del Concilio lo difesero. Contro Balducci si intentò un processo che si concluse con una condanna per apologia di reato a otto mesi con la condizionale. Ma da quel dibattito si alimentò una riflessione così ampia che, qualche anno più tardi, portò al processo a carico di don Lorenzo Milani.
Gli anni Settanta sono per Balducci gli anni della convergenza fra fede e storia. Nel suo orizzonte culturale cominciano a farsi largo le novità rappresentate dalle teologie che prendono piede nei continenti esclusi. Si interessa moltissimo della teologia della liberazione, dell’educazione come pratica della libertà (Paulo Freire). Rilegge lo spirito contestatore di Thomas Merton e si getta a capofitto nella riflessione sulla cultura della pace in un tempo sottoposto alla minaccia dell’apocalisse nucleare (Gandhi, Luther King, Capitini, Freud, Einstein, Fromm, Theilard de Chardin sono i maestri di questi anni). E intanto va strutturandosi e definendosi il programma dell’“uomo planetario”, che troverà lo sbocco conclusivo all’inizio degli anni Ottanta: “Il tratto essenziale del nuovo umanesimo è la fede nell’uomo e precisamente la fede nella possibilità della specie di abbandonare l’età delle guerre come, un tempo remotissimo, abbandonò le caverne e come, in tempo recente, abbandonò la pratica della schiavitù come legge di natura”. Il sogno prende fiato con la “rivoluzione” di Gorbaciov e la caduta del muro di Berlino mentre ad Assisi il Papa riuniva – per la prima volta nella storia – tutti i capi delle grandi tradizioni religiose dell’umanità: “Nel crepuscolo di Assisi – annotò Balducci – ho avvertito l’eclissi delle grandi ideologie che hanno finora guidato la storia dell’Occidente”.
Figli della ragione
Ma la spirale del terrore torna a soffocare l’emozione per il nuovo inizio e già con l’avvio degli anni Novanta Balducci è costretto a prodigarsi in una grande battaglia etica e politica contro l’esplodere della guerra nel Golfo Persico, primo atto di un passaggio del millennio raggelato dalla nuova stagione di conflitti. Balducci tenne alcuni dialoghi a Radio Rai con alcuni intellettuali noti a livello internazionale (Garaudy, Boff, Dussel, Papisca, Ferrajoli, Senese, Lanternari) per smontare l’impianto della guerra e rivelare i piani soggiacenti ad una ideologia razzista, etnocentrica, imperialista, incapace di mettersi dalla parte delle vittime dei bombardamenti. Eppure nell’“accadimento funesto” Balducci sentiva in lontananza il “vagito della comunità mondiale”, sentiva che sarebbe nata in mezzo al diluvio dei missili e delle bombe una nuova politica planetaria come conseguenza di una presa di coscienza razionale sul limite varcato dal ritorno del fantasma della guerra. Ecco un passaggio tratto dal dialogo con Edgar Morin in Le tribù della Terra. Orizzonte Duemila: “In una cronaca giornalistica letta stamani, che si riferiva a questa notte, leggo che i soldati americani sulla linea di frontiera del Golfo nell’udire il rumore dei bombardamenti che si avvicinavano all’Iraq hanno gridato, entusiasti fra di loro: ‘È terribile e splendido. Stiamo facendo la storia’. Questo improvviso sussulto di coscienza storica dei marines mi ha sollecitato. Sono convinto, stanno facendo la storia. Sono convinto che quello che sta avvenendo in questi giorni, che avverrà nei giorni nel Golfo potrà essere assunto nel futuro, anche come datazione, come inizio di un’epoca nuova che succede all’età moderna. Per altri versi noi abbiamo ormai raggiunto, nella terminologia corrente, la individuazione di una età post-moderna. Ecco, sul piano culturale-politico la guerra del Golfo segna la fine dell’età moderna, dà inizio all’età post-moderna. In questo senso la coalizione multinazionale che sta operando in questi giorni, in un linguaggio farisaicamente pulito ‘un’operazione di polizia internazionale’, in linguaggio realistico ‘una guerra’, sta portando avanti la liquidazione di un’epoca storica. Possiamo dire – utilizzando le suggestioni che mi sono venute prima dalla lettura dei libri di Morin, e poi da quello che ora ha detto – che, sì, è vero, noi siamo nell’età del ferro dell’età planetaria ma questa età planetaria si è costruita con la violenza e solo oggi essa si mostra incapace di realizzare l’ispirazione internazionale che l’ha guidata in questi cinquecento anni”.
Balducci non ha vissuto l’evolversi di quella storia, non ha vissuto il passaggio dalla prima guerra del Golfo alla guerra infinita e permanente del dopo 11 settembre. Per questo motivo c’è chi legge ora quelle parole sotto il segno del “fallimento” di un’ utopia che non si è fatta realtà: “Quello che padre Balducci non aveva voluto ammettere – ha scritto La Valle – era che la ragione potesse contraddirsi, che l’alternativa non fosse solo tra razionale e irrazionale, ma tra diverse e opposte razionalità, che la guerra, esauriti i vecchi argomenti di ragione, poteva sempre inventarsene di nuovi, che la ragione non genera solo figli illuminati, ma genera anche mostri. Con la ragione si poteva restare nella guerra; come in effetti un’altra ragione c’era nella guerra del Golfo, nella guerra jugoslava, come una ragione c’è nell’attuale guerra globale”.
Uomo inedito
Ecco perché accanto all’impegno contro la guerra Balducci aveva avviato una rilettura appassionata della conquista dell’America proprio nel cinquecentesimo anniversario dal genocidio amerindio (1992). Per togliere ossigeno alla teoria e alla pratica della guerra bisognava ripensare totalmente il quadro culturale dell’occidente moderno, che si alimenta a partire dal 12 ottobre del 1492, ossia dal giorno in cui le caravelle di Colombo approdano nel Nuovo Mondo. In Montezuma scopre l’Europa quell’evento torna a noi attraverso il cumulo di possibilità di un “incontro” rimasto assopito. Che cosa sarebbe potuto accadere – si chiede Balducci – se la storia fosse andata diversamente? Ecco che ritornano i grandi temi del dialogo, dell’incontro fra le culture e le religioni l´irruzione del volto, la nascita dell´uomo inedito, del puer (fanbciullo) che vola con le ali leggere della pace sopra la corazza armata del senex (il vecchio). Ne La Terra del tramonto Balducci riassume per intero le coordinate del suo pensiero. L’uomo nuovo, l’“uomo inedito” si impone sull’“uomo edito”, l’uomo della cultura corrente che non sa più vivere perché compresso nella pressa delle cose date per scontate. È la dialettica che, sul cammino del filosofo marxista revisionista Ernest Bloch, segna un punto cruciale nell’umanesimo balducciano. Uomini inediti sono stati per lui san Francesco d’Assisi e Gandhi, papa Giovanni, tre figure su cui si trattiene per scrivere le biografie. Gandhi era per Balducci l’uomo delle molte culture, l’uomo che ha trovato il Dio dei teologi nella nonviolenza attiva e dinamica. San Francesco rappresentava la verità di un cristianesimo sottratto alle durezze della legge, un cristianesimo libero, leggero, danzante, papa Giovanni è la saggezza contadina che innova e guarda lontano.
Balducci fu e rimane, nella memoria di chi l’ha conosciuto, come un uomo inedito, che a settant’anni sapeva ancora emozionarsi davanti a diecimila pacifisti all’Arena di Verona (era il 1990 e fu grande il richiamo dell’iniziativa organizzata dai Beati i Costruttori di Pace) per alzare alto il grido della speranza sulle rovine di Sarajevo. L’ultima immagine che ho di lui è l’abbraccio con David Maria Turoldo, visibilmente ammalato. In mezzo a quella folla colorata Balducci gli disse: “Sono gli angeli che ti annunciano il paradiso”.