TEOLOGIE

Figli della Pacha Mama

Assaggi di teologia indigena latinoamericana.
Da Kingston, l’incontro di Chiese e di persone diverse.
Tutte alla ricerca di Dio. Unico e Padre.
Gianni Novelli (Direttore Cipax - Centro Interconfessionale per la pace)

Nella Convocazione ecumenica internazionale sulla pace che si è tenuta a Kingston in Giamaica dal 15 al 25 maggio scorsi, una presenza particolarmente significativa (e visibile) è stata quella delle teologhe indigene latinoamericane. Alcune di loro hanno animato gli incontri di preghiera, i gruppi di lavoro e gli studi biblici. Ho intervistato due teologhe boliviane, provenienti dalla nazione Aymara, approfittando della maggiore familiarità che ho con il loro Paese e della comune amicizia con suor Antonietta Potente.

Vicenta Mamani Bernabè
Sono Vicenta Mamani Bernabè, sono Aymara, boliviana. Sono teologa metodista. Vengo da una comunità rurale che si trova sulle rive del Lago Titicaca, sull’altipiano boliviano. Sono stata invitata a questa Convocazione ecumenica perché rappresento un coordinamento di teologhe indigene latinoamericane. Per più di cinquecento anni la teologia indigena è rimasta nella clandestinità perché le Chiese cristiane la consideravano eretica e idolatra. I riti ancestrali nelle comunità aymara erano proibiti come fossero uno strumento del diavolo.
Dal 1992, in occasione dei Cinquecento anni della Conquista, le nostre credenze ancestrali, i nostri riti religiosi e in genere l’identità e la spiritualità aymara sono venuti alla ribalta in Bolivia. In quest’ultimo decennio, in consonanza con il riscatto politico e culturale dei movimenti indigeni promosso dal presidente boliviano Evo Morales, pure lui indigeno aymara, c’è stato un grande movimento di riscoperta e valorizzazione di tutte le culture e le civiltà indigene. In questi anni, ci siamo riuniti con studiosi di diverse teologie: eravamo teologhe e teologi indigeni coscienti della nostra condizione di colonizzati e abbiamo lavorato molto per una riscoperta dei nostri valori ancestrali. In Bolivia, soprattutto nella zona dell’Altipiano, ci riuniamo frequentemente, cattolici, metodisti, battisti, luterani. Purtroppo le Chiese evangeliche fondamentaliste non partecipano molto. Ognuno interviene a titolo personale e condividiamo la riflessione e le esperienze di spiritualità indigena.
La cultura aymara ci dice che tutto ciò che ci circonda ha vita. Le cose, le piante, gli animali, tutto ha vita. Sono esseri viventi come noi. Tutto ha uno Spirito. Pertanto, nei confronti di ognuno e di ogni cosa dobbiamo relazionarci con rispetto. La visione indigena ci insegna che la “Pachamama” è la nostra mamma, la “Madre Terra”. Noi siamo suoi figli.
Siamo fratelli e sorelle , non proprietari, della natura. Noi facciamo esperienza di Dio tutto il giorno, in tutte le nostre attività. Noi non facciamo teologia partendo dalla domanda “Chi è Dio?”. Partecipiamo alle celebrazioni del popolo, ai loro riti, alle loro attività di ogni giorno. Iniziano le loro giornate con Dio. Camminano nelle loro giornate con Dio. Lavorano con Dio. Le persone fanno esperienza di Dio lungo tutto il giorno, in tutte le loro attività. E noi difendiamo queste credenze. I riti che celebriamo nelle case e nelle comunità sono gesti che simboleggiano il ringraziamento alla Madre Terra per tutto ciò che ci dona e per permetterci di avvicinarci a Dio.
È uno scambio: come la “Pachamama” ci dà tutti gli alimenti, così noi dobbiamo offrire riti e azioni riconoscenti alla “Pachamama”.
Tutto ciò che ci serve per sopravvivere lo viviamo in unità, senza domandarci se questo è aymara o cristiano. Lo viviamo in forma quotidiana e naturale.
La nostra teologia non è portata per la scrittura. Ci muoviamo piuttosto all’interno della tradizione orale, propria del vivere quotidiano. Ci mancano ancora analisi e sistemazioni generali. Scriviamo, però, alcuni articoli sulla cultura aymara. Ad esempio, abbiamo un bollettino delle teologhe indigene che è giunto già al suo terzo numero. Ad ogni modo, preferiamo gli incontri e gli scambi personali.

Suor Sofia Chipawa Quispe
Sofia Chipawa Quispe è una suora cattolica, di una congregazione spagnola, anche lei aymara e vive a La Paz. È venuta a Kingston a rappresentare il coordinamento ecumenico delle teologhe indigene. Continuo con lei il discorso di Vincenta, chiedendole informazioni sul versante cattolico.
“Molti missionari e missionarie cattolici ci hanno insegnato ad amare la nostra identità aymara. In qualche modo molti di loro si sono impegnati a riscattare i nostri valori ancestrali. Ci hanno insegnato a mantenerli vivi anche se erano loro estranei. Certo dovevano agire contro corrente. Noi indigeni eravamo discriminati, segregati, considerati inferiori umanamente e religiosamente. I cristiani colonizzatori non solo non comprendevano ma calpestavano i nostri valori. Ora è in atto un cammino diverso.
In questi ultimi decenni si è sviluppato un processo di riscoperta dei valori andini. Oggi non si pongono più in modo contrapposto valori cristiani e valori andini. Stiamo realizzando un vero dialogo tra Cristianesimo e religioni ancestrali e in particolare, come nel mio caso, con la spiritualità andina. Si formulano ormai delle elaborazioni anche teoriche. Per me è una grande sfida perché io sono migrante di seconda generazione. Non ho più un contatto diretto con la mia comunità ancestrale. I miei genitori vennero da giovani dalla campagna alla città.
Io sono nata e cresciuta nella città di La Paz e non ho avuto occasione di nutrirmi dell’educazione religiosa tradizionale. Quello, però, che stiamo facendo in questi ultimi tempi è rivitalizzare e riarticolare la nostra identità indigena in questi spazi urbani. La maggior parte degli indigeni vive oggi nelle città, spesso in condizioni spirituali, ancor più che economiche, alienate.
Il problema che ci assilla è come ricreare negli spazi urbani la nostra identità e articolare la nostra spiritualità in modo diverso da come la vivevamo negli spazi rurali. Non si tratta di mettere da parte tutto. Dobbiamo riscattare alcuni elementi dell’ancestralità ricreandoli nelle città.
Io e altre suore indigene, in questi ultimi tempi, ci siamo impegnate anche nella ricerca di una nuova articolazione della vita religiosa indigena. Lo facciamo a fianco della Conferenza delle Religiose e dei Religiosi dell’America latina. Abbiamo già avuto degli incontri continentali in cui abbiamo messo a confronto le nostre identità. Sentiamo che in molti casi non coincidono con le tradizioni cristiane europee. Stiamo cercando di riprenderne alcuni valori ed elementi per farli convivere con quelli delle spiritualità ancestrali. Non è facile. Ci sono forti resistenze perché restano prevalenti e dominanti le interpretazioni europee del messaggio di Cristo. Vengono messe in secondo piano quelle della spiritualità ancestrale.
Non vogliamo cadere nel folklore, come è successo con il tema dell’inculturazione. Per molto tempo, infatti, la Chiesa di Bolivia si è impegnata nell’inculturazione e il risultato è stato il folklore. Si sono assunti simboli come i vestiti, i canti, i balli, i gesti, ma non si è approfondito su quale fosse il contenuto di questi simboli. Non si pensava neppure che si potesse costruire una teologia indigena. Penso, però, che ora siamo in un tempo favorevole nel quale è possibile articolare tutti questi elementi. Puntiamo non più su una inculturazione ma su un dialogo interculturale molto più ricco, creativo, dinamico.
Il dialogo interculturale non significa un’imposizione di una cultura sull’altra. Significa sederci insieme e vedere come possiamo convivere con una reciproca contaminazione e arricchimento. Nell’ultimo periodo sono stati fatti molti passi avanti. È un processo recente, ma di grandi prospettive. Ad esempio nel 2009 si è costituita la “Rete di teologhe indigene dell’America Latina”.
Come donne indigene vogliamo avere una nostra voce. Le nostre esigenze sono diverse anche da quelle dei nostri fratelli indigeni. Non solo abbiamo sensibilità diverse come donne, ma abbiamo pure conservato una più forte identità e abbiamo rea-lizzato una maggiore resistenza spirituale e culturale di fronte alla colonizzazione. Nella cultura indigena la trasmissione della saggezza e dei valori avviene attraverso le donne che, pur arrivando alla città, sanno conservare meglio la lingua, le tradizioni e i riti. Resistono meglio alle seduzioni della città e ai processi di occidentalizzazione.
Il nostro coordinamento di teologhe non ha sede in una città fissa. Siamo una rete e ci teniamo collegate via internet e posta elettronica. Ci sono comunità di teologhe indigene anche nei singoli Paesi. Abbiamo un bollettino elettronico che è già arrivato al terzo numero. Ci sono poi occasioni o avvenimenti come questa Convocazione ecumenica di Kingston nelle quali ci incontriamo e dialoghiamo.
Attualmente sono impegnata nell’Istituto ecumenico andino di La Paz. È attivo da vari anni e ha già prodotto varie pubblicazioni. Ci teniamo, però, ad avere una nostra propria comunità come teologhe.
Sono anche suora e anche questa è una sfida. Nelle congregazioni religiose la situazione è complessa. Ci sono molte suore (ma lo stesso è per i religiosi) che sono di discendenza indigena, ma non valorizzano, anzi nascondono, la loro identità autoctona. Si richiede una specie di “conversione” alle proprie radici. Nella mia congregazione io sono l’unica indigena. Godo della solidarietà delle mie consorelle. All’inizio le criticavo; ora però trovo che hanno molto rispetto e apertura. Capiscono che dalla spiritualità indigena possono ricevere un grande contributo, molti valori, molta saggezza e si lasciano spesso interpellare. Credo che c’è uno specifico contributo che noi indigene/i possiamo apportare al superamento della crisi della vita religiosa attuale. Non si tratta di creare rotture, tensioni, radicalizzazioni, ma di entrare in dialogo come hanno fatto i nostri antenati. Solo perché essi si sono aperti ad altre culture noi oggi conosciamoo e apprezziamo i loro valori e la loro cultura. Se si fossero chiusi, oggi sarebbero del tutto spariti. Lungo i secoli i popoli indigeni hanno tenuto in vita e custodito un’identità culturale e spirituale che li ha aiutati ad affrontare la colonizzazione, l’annientamento, l’urbanizzazione e altre pressioni esterne. Oggi questa spiritualità, basata sull’equilibrato con il mondo naturale, può aiutare anche la società occidentale e le sue stesse istituzioni religiose a superare l’attuale crisi del mondo contemporaneo.

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