Sogni di liberazione
Il 2011 è stato un anno cruciale per la storia dell’Afghanistan, carico di valenza simbolica e implicazioni politiche. Ricorrono, infatti, due importanti anniversari: siamo a dieci anni dall’avvio dell’intervento militare da parte della comunità internazionale e dalla prima Conferenza di Bonn, in cui si delineò l’assetto politico dell’Afghanistan per gli anni a venire.
Quest’anno ha segnato l’inizio della transizione, che prevede il graduale ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan e il passaggio di consegne della responsabilità della sicurezza nelle mani del governo afghano, con termine previsto nel 2014. È stato anche l’anno della seconda Conferenza internazionale di Bonn, che si è svolta il 5 dicembre e ha visto riunite le delegazioni di più di 90 Paesi e organizzazioni internazionali per discutere dell’impegno della comunità internazionale per la costruzione della pace e lo sviluppo dell’Afghanistan.
Bilanci e riflessioni
Un anno di bilanci, dunque, e di riflessioni sulle prospettive future di questo Paese. Bilanci che non possono prescindere da un’analisi dell’attuale condizione delle donne afghane e del grado di coinvolgimento delle donne nei processi decisionali relativi alla costruzione della pace in Afghanistan. Una pace che non sarà né giusta né duratura se non saranno incluse le donne in ogni sede rilevante e se i loro diritti non saranno considerati elemento imprescindibile di ogni negoziazione volta alla stabilità del Paese.
Diventa ancora più urgente parlare di partecipazione delle donne afghane nei processi decisionali, in vista della Conferenza di Bonn, se si considera che la tutela dei loro diritti fu inclusa dalla comunità internazionale tra gli obiettivi delle operazioni militari avviate nel 2001, giustificate in primis dalla volontà di proteggere il mondo dalla minaccia terrorista di Al-Qaeda in seguito agli attacchi dell’11 settembre e ripristinare la democrazia in Afghanistan (il 7 ottobre 2001 Stati Uniti e Gran Bretagna diedero avvio all’operazione Enduring Freedom, cui due mesi dopo segui la missione delle Nazioni Unite ISAF – International Security Assistance Force, sotto guida della NATO dal 2003.).
È sempre difficile parlare di Afghanistan, data la sua complessità. Alcuni dati possono aiutare a inquadrare il contesto a cui si fa riferimento quando si parla di diritti umani: l’Afghanistan è in guerra da due generazioni, è tra i Paesi più poveri al mondo ed è posizionato al 172° posto su 187 Paesi classificati secondo il loro indice di sviluppo umano, che prende in considerazione l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione e il PIL procapite. I dati relativi al numero di morti civili a causa del conflitto nei primi sei mesi del 2011 mostrano un aumento del 15% rispetto ai primi sei mesi del 2010, segno che non si registrano particolari successi in termini di sicurezza.
Per quanto riguarda la condizione femminile, i dati ufficiali ci dicono che solo due donne adulte su dieci sanno leggere e scrivere; il tasso di mortalità materna è tra i più alti al mondo, l’aspettativa di vita delle donne afghane è di 43 anni, quasi 20 anni in meno rispetto alla media mondiale, e si stima che tra il 60 e l’80 per cento delle donne sia costretta a matrimoni forzati.
La maggioranza delle donne in Afghanistan ha subito violenze di vario tipo nella sua vita: psicologica (umiliazioni, limitazioni della libertà, divieti, minacce), fisica (maltrattamenti, abusi di ogni tipo), economica (divieto di lavorare fuori casa, negato accesso alle risorse economiche della famiglia). Le violenze sono perpetrate nella maggior parte dei casi dai familiari delle vittime e nelle comunità prevale la convinzione che la violenza domestica sia un fatto privato. Lo stupro, inoltre, non sempre è considerato reato.
Tutele
Questo avviene nonostante vi siano strumenti legislativi a tutela dei diritti delle donne: la nuova costituzione riconosce l’uguaglianza tra uomini e donne, nel 2009 è stata introdotta una legge per contrastare la violenza di genere ed esiste un piano d’azione nazionale per le donne afghane (NAPWA), programma decennale per l’implementazione di misure volte alla promozione dell’uguaglianza di genere.
Il NAPWA prevede, inoltre, tra gli obiettivi quello di facilitare l’accesso alla giustizia da parte delle donne vittime di violenza. Il problema persiste tuttavia al di là delle politiche e delle leggi scritte soprattutto a causa dell’assenza di servizi, inclusa l’assistenza legale, rivolti alle donne vittime di violenza in varie aree del Paese, in particolare nelle zone rurali.
Molti degli interventi della società civile sono volti a sopperire alle mancanze delle istituzioni afghane. ActionAid ha avviato di recente con un co-finaziamento del ministero Affari Esteri un progetto triennale nella provincia di Herat dal titolo: “Approccio integrato per la riduzione delle violenza contro le donne in Afghanistan”. Il progetto mira a facilitare l’accesso alla giustizia da parte delle donne vittime di violenza attraverso la formazione di figure paralegali, ibridi che coniugano l’assistenza sociale e psicologica a quella legale e idonee interfacce tra le donne che subiscono violenza e la magistratura. Il progetto prevede l’intervento in 50 villaggi e sarà implementato con la collaborazione di partner locali, tra cui organizzazioni che gestiscono case-rifugio. Oltre ai servizi di assistenza, nei vari villaggi saranno creati circoli di sole donne in cui si terranno corsi di alfabetizzazione e formazione, volti alla condivisione di esperienze e alla presa di coscienza dell’esistenza di strumenti normativi a tutela dei diritti fondamentali delle donne. In parallelo sono previste attività di sensibilizzazione a livello comunitario sulla violenza di genere e di pressione politica per l’implementazione concreta delle leggi per la protezione e promozione dei diritti delle donne.
L’esito di questa tipologia di interventi può essere ostacolato dall’instabilità del Paese e da scelte politiche che non considerano prioritari i diritti delle donne per la costruzione della pace. Un recente rapporto di ActionAid dal titolo “Una pace giusta? Le donne e l’eredità della guerra in Afghanistan”, pubblicato in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne del 25 novembre scorso, contiene i risultati di un’indagine sull’opinione delle donne afghane su eventuali progressi nella loro condizione negli ultimi dieci anni. Secondo le donne intervistate vi sono stati miglioramenti dal 2001, ma i progressi si sono arrestati a partire dal 2006, quando l’insicurezza nel Paese è peggiorata e i gruppi ribelli hanno guadagnato terreno. L’indagine rivela, inoltre, le preoccupazioni delle donne afghane sulla Conferenza di Bonn: in generale lamentano la carenza di coinvolgimento e consultazione delle organizzazioni attive per la promozione dei diritti delle donne e di trasparenza sull’agenda dell’incontro; temono, inoltre, che vi siano degli accordi dietro le quinte con i talebani per evitare la guerra civile dopo il ritiro delle truppe internazionali e che il prezzo della pace sarà la rinuncia alla protezione dei loro diritti.
A oggi l’obiettivo di tutelare i diritti delle donne, declamato dieci anni fa dalla comunità internazionale, sembra quindi fallito, se non sulla carta: problematica che si ripropone ora, a ridosso della Conferenza di Bonn, in cui vi saranno nuove dichiarazioni di impegno da parte degli attori coinvolti nelle operazioni militari in corso, incluso il nostro Paese. L’Italia ha, infatti, partecipato attivamente alle operazioni militari ed è tuttora alla guida della missione ISAF della NATO nella provincia di Herat. È, quindi, anche responsabilità della delegazione italiana presente alla Conferenza di Bonn assicurare che le donne saranno coinvolte e consultate nei processi decisionali sul futuro dell’Afghanistan e che i diritti delle donne saranno considerati merce non negoziabile degli accordi di pace.