RESISTENZE

Il volto umano di una valle

Il popolo dei “Notav” e le ragioni della protesta contro l’alta velocità.
Roberto Cuda (Coordinatore Campagna Vizi capitali - www.vizicapitali.org)

Migliaia di persone attraversano il torrente Clarea dopo aver invaso pacificamente la “zona rossa”, appena provati da tre ore di cammino nei boschi per aggirare i blocchi delle forze dell’ordine.
L’immagine rende bene l’idea di quello che sta accadendo in Valsusa. È successo il 23 ottobre scorso alla “giornata del taglio” per aprire un varco simbolico nelle reti del “cantiere” (in realtà una caserma a cielo aperto), ma è solo una delle tante iniziative che stanno costellando in questi mesi la vita della valle. Quella volta ci si aspettava il peggio, a pochi giorni dagli scontri di Roma, in un clima tesissimo alimentato dai media (anche autorevoli testate “amiche” davano ampio spazio a sedicenti black bloc che annunciavano la calata in valle). Invece nulla. L’assemblea No Tav di settembre decretò un principio da tutti rispettato: niente sassi o atti di violenza, ma quelle reti vanno tagliate. Sappiamo che le cose andarono diversamente l’8 dicembre, pur a fronte di brutali repressioni da parte delle forze dell’ordine.
Comunque sia, nel movimento valsusino è in atto un confronto sulle strategie di lotta che sta spiazzando stampa e televisioni, abituate a incasellare la protesta in schemi fin troppo facili senza nemmeno approfondire le ragioni della protesta. Diciamo subito che il movimento non ha sposato i principi della nonviolenza gandhiana. Ci sono componenti che non condividono quell’impostazione e non ne fanno mistero. La maggioranza sostiene forse una nonviolenza di tipo “strategico”, ovvero riconoscono la maggiore efficacia di quella prassi nell’attuale momento storico-sociale. Poi ci sono componenti più radicali, che hanno maturato una scelta di principio. Questa pluralità non ha portato finora a spaccature ma ha alimentato il dibattito interno, anche in modo serrato, generando una crescita collettiva che sta ulteriormente compattando la protesta.

La gente
Teorie a parte, la valle ha il volto delle migliaia di uomini e donne che periodicamente riempiono strade e piazze, che sfilano davanti alle reti e cercano di tagliarle, che affollano le assemblee e gli incontri che quasi ogni settimana si susseguono da Torino e Venaus. Basta fare un giro sui loro siti per constatare la vitalità di una protesta che prosegue da vent’anni con inalterata indignazione, in un Paese dove lo sdegno dura molto meno. Nei cortei si vedono i figli ventenni di coloro che iniziarono a mobilitarsi nel lontano 1989: una nuova generazione che sta prendendo il testimone della protesta dalle mani dei più anziani. Faceva un certo effetto quest’estate vedere uomini e donne di tutte le età salire alla Maddalena (dove dovrebbero partire i lavori per il tunnel esplorativo) e passare la notte in un sacco a pelo in attesa delle ruspe. Persone normali, solo non più disposte a subire la distruzione del territorio che li ha visti nascere, con tutte le speranze, la determinazione e le contraddizioni di chi lotta. Il movimento ha oggi un vasto sostegno nel Paese e lo dimostra l’imponente manifestazione del 3 luglio scorso, dopo lo sgombero e la recinzione dell’area, quando arrivarono 70.000 persone da tutta Italia. Ricordiamo anche l’epilogo violento, che di fatto rubò la scena al gigantesco corteo e aprì la strada agli scontri delle settimane successive. E probabilmente c’entravano poco i famigerati black bloc. Alcuni venivano da fuori, ma molti erano valsusini e torinesi, non tutti legati ai centri sociali. Molti altri applaudivano e tifavano, in un clima da stadio. Inutile illustrare le immagini che la mattina dopo campeggiavano su tutti i giornali, tra scene di guerra e sassaiole. Molto meno spazio fu dedicato agli abusi da parte degli agenti.

I rischi di violenza
Il rischio di scivolare sul terreno impervio dello scontro fisico esisteva, l’esasperazione aveva superato il livello di guardia e cominciava a tracimare. Ma ciò fu anche l’epilogo di due decenni di ricerca paziente di un contatto con le istituzioni: è questo un passaggio fondamentale per capire quegli eventi. In tutti questi anni non si contano gli appelli, gli incontri, ma anche gli studi accademici che dimostrano con la forza dei numeri l’insostenibilità della nuova linea Torino-Lione. La risposta della politica, quando è arrivata, sembrava un disco rotto: “l’opera è strategica per lo sviluppo del nostro Paese”, o peggio “senza il Tav verremmo tagliati fuori dall’Europa”. Sulla base di quali dati, numeri, proiezioni, analisi costi/benefici? Non si sa. L’esperienza dell’Osservatorio, unico luogo di confronto messo in piedi dal governo, si è dimostrato presto una farsa, poiché partiva dal presupposto che la nuova linea si fa e basta.
Evidentemente in Valsusa è in atto uno scontro tra due paradigmi: quello dominante della crescita illimitata, che sta portando il pianeta al collasso economico e ambientale, e quello nascente di uno sviluppo a misura d’uomo, che coincide sempre meno con la crescita del Pil. Ma anche nei momenti più caldi non sono mancati esempi di autodisciplina su cui pochi avrebbero scommesso, come nella marcia Giaglione-Chiomonte del 30 luglio scorso, che lasciò a bocca asciutta i tanti giornalisti sparsi intorno alle reti.
E in futuro?
Difficile dire cosa succederà. Certamente la strada è tutta in salita e i più avveduti sanno che, con tutta probabilità, il Tav non si farà per mancanza di risorse. Le stime sui costi complessivi variano dai 6 ai 15-20 miliardi, in ogni caso troppi per le casse esangui dello Stato italiano. Lo stesso “cantiere” sta diventando un pozzo senza fondo: secondo i calcoli del movimento il dispositivo militare (quasi duemila agenti) costerà in 56 mesi di lavoro 186 milioni all’anno, quindi 868 milioni complessivi, ovvero 6 volte il valore del tunnel geognostico e quasi due volte il contributo europeo (se non verrà decurtato, visti i continui ritardi). Eppure nessuno sembra voler fare marcia indietro.
A nulla sono valsi gli appelli di molti esperti ad aprire un tavolo scientifico per analizzare costi e benefici, come dovrebbe accadere in qualunque Paese civile. E’ ormai una questione di immagine: tornare indietro sarebbe uno smacco per chi finora ha sostenuto il progetto a spada tratta. Il quale, lo ricordiamo, ha un sostegno bipartisan. L’ultimo atto del Governo uscente, con l’avallo dell’opposizione, parla chiaro: il “cantiere” diventerà un “sito di interesse strategico nazionale”, cioè un’area militare a tutti gli effetti con le conseguenze previste all’art. 682 del c.p. per chi cercherà di entrarvi, ossia una pena dai tre mesi a un anno o una multa fino a 309 euro.
Che fare dunque? Da quelle reti difficilmente si passerà, se non a costo di continui e inutili scontri. Ma al di là del taglio simbolico delle recinzioni, i valsusini saranno chiamati presto a nuove mobilitazioni. Sarà un banco di prova anche per i movimenti nonviolenti, che negli ultimi tempi hanno mostrato una certa tendenza a sottrarsi ai conflitti. Al contrario i maestri della nonviolenza insegnarono a vivere fino in fondo il conflitto, dove si esprime il volto peggiore del potere, con uno stile, un linguaggio e un metodo che il potere stesso non si aspetta. Talvolta viene erroneamente identificata la nonviolenza con la legalità. Va da sé che il rispetto della legge resta un dovere, ma ciò non sempre è possibile. Azioni creative e sorprendenti di disobbedienza civile hanno costellato la lotta di Gandhi che, senza reagire alla repressione, mise gli avversari di fronte al male commesso innescando addirittura processi di conversione.
Come dimostrano le azioni del movimento valsusino, basta la semplice presenza davanti al “fortino” per tenere in stato di allerta le forze dell’ordine, che non potrà continuare all’infinito. È questo un terreno su cui sperimentare azioni nonviolente di pressione, come sta già avvenendo. Qualcuno ha proposto di sensibilizzare gli agenti stessi: può sembrare utopico, ma casi di obiezione di coscienza si sono verificati in situazioni ben peggiori.
Il cantiere, se e quando partirà, avrà bisogno costantemente di mezzi e persone. Dall’occupazione pacifica dei territori circostanti o delle zone di transito ad azioni simboliche e ripetute, sono tante le iniziative nelle quali potrebbe declinarsi una strategia nonviolenta. E difficilmente si potranno arrestare centinaia o migliaia di persone pacifiche, compatte e determinate. Pensiamo anche alle azioni creative di Turi Vaccaro, o in altri contesti, alle iniziative di Greenpeace, non necessariamente da attuarsi davanti alla reti. Il confronto è in corso, ma il solco già tracciato mostra un movimento sempre più consapevole della forza delle proprie ragioni, con un consenso crescente.
Anche per questo il Tav non si farà.

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