A come ABBRIVO...
Abbrivo. Che cos’è? È la “spinta iniziale impressa a un’imbarcazione o a qualsiasi veicolo”. Così la definisce Sabatini Coletti nel suo Dizionario della Lingua Italiana, che continua in questo modo: “prendere l’abbrivo, prendere la rincorsa, lo slancio”. Pensavo a un piccolo “prontuario” della pace, con termini, ai quali ricondurre idee, suggestioni e proposte.
Parole generatrici, insomma, come le chiamava Paulo Freire. Possibilmente in ordine alfabetico. Possibilmente, perché non so se ogni volta saprò trovarne una utile in maniera sequenziale, come in una sorta di abbecedario.
In ogni caso la parola di oggi, solitamente sconosciuta, aiuta intanto me per darmi la spinta iniziale a questa nuova rubrica.
Un nuovo inizio
Di spinta iniziale abbiamo sempre bisogno. Ne abbiamo bisogno tutti e anche “in corso d’opera” e non solo all’inizio di qualsiasi attività o di idealità che si protragga nel tempo. Ne abbiamo bisogno ancor di più nell’attività per la pace, perché, proprio nel nostro campo, la pace è disattesa, negletta, sospettata, rimandata. Viviamo giorni nei quali le manovre economiche, pur effettuate da fior di cattolici e indispensabili – a come sembra – non riescono assolutamente a bloccare le manovre di acquisto di bombardieri, che costano allo Stato italiano qualcosa come una parte preponderante della stessa finanziaria. Salvo ripensamenti, i sacrifici sono per tutti i capitoli di spesa, ma non per quello della “difesa”. A riguardo resta ancora da dimostrare che bombardieri simili siano di difesa e non di offesa o di rappresaglia.
Abbrivo come nuovo inizio, allora. Anche per noi cristiani. Direi soprattutto per noi, che scopriamo quanto sia inadeguato ogni agire per la pace che non nasca da un agire dalla pace, cioè a partire da essa.
Che cosa vuol dire? Ciò che non ripeteremo mai abbastanza: che la pace ci viene data come promessa, come dono e come impegno.
Come promessa. Non una vaga e irrealizzabile assicurazione su ciò di cui non disponiamo, ma la partecipazione a un disegno più grande di noi, che però non si può effettuare senza di noi.
Un disegno, che non è sogno vago e astorico. Al contrario, è vero e proprio progetto “politico”: di vita vissuta e condivisa; di vita reale, ma che s’innesta all’Eterno; di vita concreta che assume lo spessore storico della solidarietà.
Il dono del sale
Come dono. Similmente alla vita, al sole, alle stagioni, alla fantasia e alla creatività umana, la pace viene da altrove. Reca una sua positività e una sua proponibilità. Non ci si chiede se il sole possa veramente scaldare e se la vita possa realmente germinare. Se la creatività possa sognare e se la progettualità possa realizzare. Tutto ciò lo abbiamo ricevuto e lo riceviamo ogni giorno “dal di fuori” e nessuno ne mette in dubbio l’efficacia. Per la pace, invece, avviene il contrario. Lacci e lacciuoli, sospetti e dileggi, scherni e sorrisetti. Se a dubitare della fattibilità della pace siamo noi cristiani, allora succede qualcosa di simile a ciò che Gesù diceva del sale: finisce per terra con la conseguenza di essere calpestato dai passanti. Nel brano dell’evangelista Marco sale e pace compaiono, sorprendentemente, nello stesso contesto: “Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Mc 9,50). Come a dire: essere in pace gli uni con gli altri è effetto e causa di una vita che ha senso e sapore. Il sale, infatti, indica tra le tante cose anche e soprattutto questi due elementi.
Il sale è anch’esso un dono. Occorre però cercarlo, ripulirlo, utilizzarlo. La pace è sapore e gusto non solo della vita individuale, ma della storia in generale. L’umanità ha però fatto a gara per dimenticarne il sapore e la nostalgia. Almeno noi cristiani cerchiamo di non perderne i connotati.
Impegno per tutti
Come impegno. Il pericolo è che la pace venga svilita e destoricizzata. Si dice ancora troppo spesso: “Ci può essere solo la pace dei cuori e dello spirito, solo la pace interiore, solo la pace eterna…”.
Ma qui è il vero problema. Si parla di pace “eterna” senza rendersi conto che l’Eterno è entrato nel tempo, così come si parla di pace dei cuori, dimenticando che proprio dal cuore dell’uomo può uscire il bene o il male. Spesso ne esce la violenza in varie forme: “Quindi (Gesù) soggiunse: ‘Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo’” (Mc 7,20-23).
San Paolo sembra integrare gli esempi portati da Gesù su un versante positivo, mettendo a confronto le opere della carne (cioè dell’egoismo: Gal 5,17-21) con quelle dello Spirito. Fa notare come queste non siano da relegare in una spiritualità fuori del tempo e della storia. Infatti, “il frutto dello Spirito… è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”.
Insomma chi crede in Gesù crede anche nella pace, perché ne è promotore e facitore. Nello spirito e nella continuità di Colui che ha fatto la pace “per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (Ef 2,15), così ha voluto che anche noi ne siamo artefici, veri facitori. Ciò corrisponde a quanto Gesù dice: “Beati quelli che fanno la pace perché saranno chiamati – cioè saranno – figli di Dio” (Mt 5,9).
La pace da realizzare è opera dei figli di Dio, perché Dio è pace e vuole la pace sulla terra. Sulla terra, guardando a quella del cielo, da cui la pace storica proviene e verso il quale essa rimanda. Da dove prendere l’abbrivo se non da qui? Abbr-ivo per un arr-ivo ultimo che, di certo, sfugge alle nostre possibilità e che tuttavia ci interpella direttamente come uomini e come cristiani.