Comuni per il bene pubblico
Con il referendum del 12 e 13 giugno scorsi, 27 milioni di italiani si sono pronunciati contro la privatizzazione del servizio idrico e la possibilità di fare profitti sull’acqua, bene comune per eccellenza.
Si è trattato di un momento di straordinaria partecipazione democratica, nel quale i cittadini si sono riappropriati, a un tempo, di un bene essenziale della vita, troppo spesso sottratto alla sfera dell’interesse generale in ossequio a logiche lucrative e predatorie, e di sedi decisionali relative a materie incidenti su diritti fondamentali (è il caso dei servizi pubblici locali).
All’indomani della vittoriosa campagna referendaria, il Comune di Napoli, in attuazione della volontà popolare, ha deliberato la trasformazione del soggetto giuridico incaricato di erogare il servizio idrico integrato da società per azioni in azienda speciale.
Il processo ha conosciuto le seguenti tappe fondamentali:
a) delibera di Giunta (n. 740 del 16 giugno) con la quale si è inaugurato il percorso;
b) fase di consultazioni, nell’ambito della quale sono stati ascoltati esperti sui singoli aspetti della trasformazione;
c) delibera del Consiglio comunale (n. 32 del 26 ottobre), con la quale si è disposta la trasformazione di ARIN spa in azienda speciale e l’approvazione del nuovo statuto;
d) adempimenti di carattere societario inerenti al perfezionamento della trasformazione e al rinnovo delle cariche.
La Giunta De Magistris, pertanto, si è dimostrata la più celere a tradurre in azione politica la volontà degli italiani, facendo propria la causa dei beni comuni, vero motivo ispiratore, sul piano culturale, della campagna referendaria.
Per quanto concerne la scelta del modello organizzativo, occorre rilevare che l’azienda speciale ex art. 114 d.lgs. n. 267/2000 appare più idonea rispetto alla forma giuridica della società per azioni a servire l’interesse generale, attesa la spiccata vocazione pubblicistica che essa esprime.
E invero, l’approdo verso forme di gestione totalmente (rectius, realmente) pubbliche del servizio idrico integrato, quale l’azienda speciale, rappresenta la più naturale conseguenza del voto referendario e della volontà dei cittadini di riappropriarsi dell’acqua, sottraendola alle regole del profitto.
Inoltre, l’adozione del modello dell’azienda speciale si rivela ancor più garantista per quanto attiene al delicato tema dei controlli, in quanto consente di andare ancora al di là della frontiera dell’in house (e del requisito del controllo analogo), in ragione della strumentalità dell’azienda rispetto all’ente locale di riferimento.
L’azienda speciale, poi, risulta particolarmente congeniale a modelli di governance del servizio partecipati e aperti alle comunità di lavoratori e utenti (uti singuli o in forma associata), quale quello in via di definizione nella città di Napoli (dove si è prevista, peraltro, l’istituzione di un Comitato di sorveglianza, sulla falsariga dell’Observatoire Municipal de l’Eau di Parigi).
Nei comuni italiani la gestione del servizio idrico integrato per il tramite di una società per azioni a totale capitale pubblico rimane ad oggi l’opzione più diffusa.
L’esperienza napoletana ha dimostrato che una gestione dell’acqua veramente pubblica è possibile, al di là dell’ipocrisia di schemi proprietari formalmente pubblici, ma istituzionalmente votati al profitto (quali le società per azioni di diritto comune).
Si invitano, pertanto, i Sindaci delle città che organizzano il servizio idrico integrato mediante società per azioni a totale capitale pubblico (Milano, Torino, Palermo, Venezia, ecc.) a siglare un patto federativo per transitare tutti verso una gestione del servizio per il tramite di aziende speciali, seguendo, ad esempio, l’iter indicato da Napoli.
Il cd. decreto Monti bis (d.l. n. 1/2012) sulle liberalizzazioni aveva previsto inizialmente l’esclusione del modello giuridico dell’azienda speciale dall’ambito di applicazione dei servizi di interesse economico generale.
Si è resistito alla barbarie giuridica che una simile norma avrebbe comportato, ma rimane la norma (attraverso la quale si è introdotto il comma 5 bis all’art. 114 tuel) che sottopone anche le aziende speciali al patto di stabilità interno, negando sostanzialmente la possibilità alle stesse di accedere a risorse per effettuare investimenti.
Tuttavia, non è possibile accettare in un Paese che pretende di definirsi democratico, che l’art. 25 del Monti bis, rubricato “Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali” riaffermi di fatto una disciplina abrogata comportando un’indebita restrizione dell’ambito di applicazione del referendum.
Va promossa una campagna di “disobbedienza” avverso gli artt. 4-5 della legge n. 148/2011, confermati e inaspriti dal decreto Monti bis sulle liberalizzazioni, che reintroducono processi a tappe forzate di privatizzazione dei servizi pubblici locali, violando la volontà referendaria e non consentendo gestioni pubbliche partecipate.