Le ferite del Sinai
Migliaia sono i migranti africani che, nel tentativo di raggiungere Israele passando dall’Egitto, diventano prigionieri di gruppi di trafficanti in gran parte eritrei e bedui-ni. Abbiamo chiesto a suor Azezet Kidane Habtezghi (per tutti semplicemente “Aziza”), missionaria comboniana, eritrea, di raccontarci cosa vede e ascolta ogni giorno.
Suor Azezet, infermiera, lavora a Tel Aviv con l’organizzazione israeliana Medici per i diritti umani (MEDU), e – anche grazie alla sua conoscenza di tigrino, amarico e arabo – si occupa di un progetto di ricerca sulla drammatica situazione in Sinai. Il progetto ha come base la Clinica aperta di MEDU a Tel Aviv-Jaffa. A dicembre 2011, per la sua testimonianza, suor Azezet ha ricevuto ad Aosta il premio Soroptimist international Club Valle d’Aosta.
Da quali Paesi provengono i migranti che, nell’attraversare il Sinai, vengono presi in ostaggio dalle bande di trafficanti?
Vengono principalmente da Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Costa d’Avorio.
Dove vivi e in cosa consiste il tuo lavoro?
Io abito a Betania, che è un sobborgo di Gerusalemme, dalla parte palestinese della città. Ogni martedì mattina lavoro a Tel Aviv, con le donne che hanno attraversato il Sinai e ora hanno dei figli, frutti di abusi a opera dei trafficanti. Affianco una psicologa che mi “prepara” i casi di donne che hanno bisogno di un mio aiuto. Invece il martedì, il mercoledì e il sabato collaboro con la clinica aperta da Medici per i diritti umani. La clinica è un punto di riferimento, in Israele, per tutti gli immigrati che non hanno un’assicurazione sanitaria. Vi arrivano persone che provengono dall’America Latina e da tanti altri Paesi, ma anche israeliani e palestinesi: in sostanza tutte le fasce più povere della società.
Con Medici per i diritti umani, come avete iniziato ad affrontare il problema delle vittime dei traffici in Sinai?
Parlando con quanti arrivavano da noi, ci siamo accorti che, spesso, ricorrono tre aspetti: la presenza di numerose cicatrici sul corpo, la richiesta di aborto da parte di tantissime donne che dicevano di non conoscere il padre del bambino, molte malattie di tipo psicosomatico e problemi ortopedici. Abbiamo, quindi, pensato di preparare un questionario da sottoporre a tutti, per verificare cosa stesse accadendo. Sono emerse cose scioccanti. Cronache e fatti terribili che non si possono nemmeno immaginare. Le persone arrivano qui in Israele ferite fisicamente e psicologicamente. Molti, soprattutto uomini, muoiono di sete e di fame, o per incidenti con l’auto che li trasporta. Grandissima è l’umiliazione a cui vengono sottoposti dai trafficanti: li fanno sentire colpevoli dicendo “è colpa vostra, perché non avete pagato”, oppure “siete africani, quindi schiavi”, e cose simili. È impensabile che un uomo possa arrivare a fare tutto questo a un altro uomo.
Dove vivono ora queste persone in Israele?
Abitano soprattutto nelle città più grandi: Tel Aviv, Eilat, Beer Sheva. Tanti vivono nei parchi, o stipati anche in dieci in un appartamento: le case, infatti, sono troppo care. Lavorano per lo più facendo le pulizie.
In quali condizioni si trovano?
Sono sopravvissuti, ma qui in Israele sono rifiutati e la loro sofferenza continua. Io dico sempre loro – anche se spesso, mentre li ascolto e li guardo, mi costa fatica – “don’t stop dreaming” (“Non smettete di sognare”). Occorre non “sedersi” nella sofferenza. Perché se smettono di sperare in una vita più degna, allora è veramente finita.
Puoi raccontare una storia in particolare?
Potrei raccontarne così tante... ogni storia colpisce e fa soffrire. Mi viene in mente il caso di un ragazzo di diciannove anni che ha avuto la forza di dire: “Dobbiamo parlare, denunciare quanto sta avvenendo”. È un ragazzo senza il padre, con la madre molto povera e cinque fratelli. Nel suo Paese, quando ancora studiava, ha lasciato la scuola ed è andato nel Sinai, senza soldi: era, infatti, molto ingenuo, innocente. Con lui c’erano altri tre giovani: sono stati tutti catturati e messi in un container. I trafficanti beduini venivano e li picchiavano con scariche elettriche, colate di plastica sciolta nel fuoco, tubi. Vedessi le cicatrici di questo ragazzo…
Uno di questi tre giovani è morto mentre lo picchiavano, un altro si è impiccato con la cintura dei pantaloni, e questo ragazzo, dopo aver assistito a tutto ciò, voleva uccidersi anche lui. Invece, lo hanno salvato, e per questo era molto arrabbiato. L’hanno tenuto così sei mesi, picchiandolo in continuazione. Poi altri, che erano stati prigionieri insieme a lui, sono riusciti ad andare a lavorare in Israele e hanno pagato il riscatto per lui. Ecco, questo ragazzo un giorno mi ha detto: “Oggi sono molto contento perché ho cominciato a raccontare che cosa è capitato ai miei amici e a me”. Racconto questa storia da un anno e mezzo.
Noi, da qui, che cosa possiamo fare?
Tantissimi giornalisti, italiani e non, non sanno nulla di ciò che sta accadendo nel Sinai. Parlate, fate pressione sui governi di Egitto e Israele perché facciano dei controlli e pongano fine a questo traffico. Lanciate un appello contro questo silenzio del mondo. Questo tacere mi fa soffrire, perché se si trattasse di un italiano o di un europeo tutti si mobiliterebbero: a parole diciamo che siamo tutti uguali, ma in realtà non lo siamo affatto.
Dove trovi la speranza?
Tanti ora hanno fiducia e la forza di raccontare, e sono contenti: ciò mi dà la forza di affrontare il lavoro che faccio, e le storie di queste persone. Se non sento, non posso essere voce. Devo poter essere occhi per loro.