La dignità schiava
Se tra qualche secolo uno storico dovrà raccontare i nostri tempi quasi certamente sarà costretto a scrivere che: “la schiavitù fu abolita per legge alla fine del Milleottocento. Ma questa odiosa pratica continuò a essere utilizzata per molti secoli ancora, almeno fino ai primi decenni del terzo millennio”.
È una questione di diritti umani. Lo schiavismo, infatti, è la più evidente delle violazioni, ed è anche la più tenace e, paradossalmente, la più tollerata delle violazioni dei diritti umani. A volte occultata anche da chi fa dei diritti umani la sua bandiera. Si tratta di una violazione che trova nell’Africa il continente nel quale è più praticata. E non si tratta di rimasugli del passato, di una pratica che si annida nelle pieghe di un sistema produttivo che potrebbe farne a meno. Niente affatto: si tratta di un vero e proprio sistema che coinvolge milioni di persone e che, se andasse in crisi, se da un giorno all’altro non potesse essere più usato, metterebbe in ginocchio interi settori trainanti della nostra economia globalizzata.
Allora appare evidente che parlare di diritti umani in Africa significa parlare di giustizia. Il contesto africano è il più adatto per comprendere che battersi per il rispetto dei diritti umani significa pensare a un sistema economico giusto, a una globalizzazione equa e anche – perchè no? – a una militanza politica progressista (di sinistra, per intenderci) che sappia affrontare contraddizioni, anche dolorose.
Mi spiego meglio con una storia. Una storia vera tratta da uno dei miei ultimi viaggi in Congo. Ecco la storia:
Kamituga è una città della regione orientale del Kivu del Sud. È un vero e proprio scandalo geologico: da qui è stato estratto l’uranio per fabbricare le bombe di Hiroshima e Nagasaki e ci sono ancora ricchissimi giacimenti di questa materia prima strategica; è una delle più gradi riserve aurifere del mondo; la terra che ricopre le colline circostanti è ricca di coltan, cassiterite, wolframite, leghe rare che sono ambite dall’industria dell’hi-tec per fabbricare computer, telefoni cellulari ecc. E poi c’è cobalto, rame, legname pregiato.
Kamituga non è un piccolo centro. Ci abitano circa un milione di persone che fanno tutti – uomini, donne, bambini, vecchi – un unico mestiere: il minatore.
Questa città sorge alle porte dell’immensa foresta pluviale che ricopre buona parte del Congo, circa a 140 chilometri di distanza da Bukavu, capitale del Kivu. Non ci arriva nessuna strada asfaltata, solo una pista che molto spesso non è percorribile con nessun mezzo a motore. Il risultato è che a Kamituga non c’è nemmeno un auto.
Strano, verrebbe da dire: un luogo così ricco dovrebbe richiamare l’attenzione di imprese e aziende di tutto il mondo che avrebbero tutto l’interesse a rendere facile l’estrazione, il trattamento, la trasformazione e il trasporto di queste materie prime.
Infatti, è così. A Bukavu e oltre confine, nel vicinissimo Ruanda, sono presenti, con varie forme di rappresentanza, tutte le principali imprese multinazionali europee, nord americane, cinesi, russe, indiane.
Finché oro, coltan, uranio rimangono a Kamituga non valgono niente: non si mangiano. Acquistano il loro valore man mano che si avvicinano a un aeroporto internazionale, per esempio quelli di Kigali, capitale del Ruanda a poche decine di chilometri da Bukavu, oppure di Bujumbura, capitale del Burundi. Ma in questi luoghi le materie prime bisogna trasportarcele.
L’oro di Kamituga
Ecco dove si annida la schiavitù. Per l’oro, per esempio, funziona così: le colline intorno a Kamituga sono un vero e proprio scolapasta, punteggiate da fori praticati sul terreno larghi poco meno di un metro di diametro che vanno in profondità anche di un chilometro. A scavare sono bambini e ragazzi e a entrarvi in profondità sono, più spesso, i primi, perchè sono piccoli, agili e un pò incoscienti. Infatti, questi cunicoli, a volte, smottano e seppelliscono chi vi sta lavorando all’interno, munito di una semplice torcia elettrica legata sul capo. Quando va bene, i bambini escono con i loro sacchi colmi di pietre con grosse venature aurifere che vengono portate in città dove le donne, in tutte le famiglie, le frantumano con la forza delle braccia in piccoli mortai di ferro che tengono tra le gambe. Se ne vedono in ogni uscio e il ritmico martellare comincia all’alba, prima che i galli cantino, e termina a notte fonda. Ai giovani e agli uomini restano due fondamentali passaggi della lavorazione: pulire, lavare e separare la polvere d’oro dalla terra senza valore e trasportarla, appunto, in un luogo dove abbia il suo valore.
La mancanza di strade impone che il trasporto avvenga a spalla, per 140 chilometri. Perchè mai le imprese cinesi o europee o nord americane dovrebbero fare una strada se, a prezzi più che economici, c’è chi è disponibile a collegare Kamituga a Bukavu?
Il compenso per questa catena lavorativa è minimo. Appena il necessario per nutrirsi con un po’ di riso, o di manioca, e di fagioli. Qualche rara volta con la carne di una gallina.
Il denaro guadagnato non è mai sufficiente, ovviamente, per fuggire da Kamituga dove – è altrettanto ovvio – non c’è un ospedale e non ci sono scuole.
Cuore di tenebra
Non c’è dubbio, mi sembra: a Kamituga si pratica la schiavitù. Chi ha avuto occasione di percorrere la strada che la separa da Bukavu ha visto scene che ricordano quelle descritte nel magistrale “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad. Unica differenza lì la strada che i portatori dovevano percorrere a piedi sotto un peso di decine di chili era quella che separava l’attuale Kinshasa dalle coste africane sull’Oceano Atlantico, poco meno di duecento chilometri. La materia prima di allora era il prezioso caucciù, che dentro la foresta non valeva nulla, ma in Europa era indispensabile. Oggi sono cambiate le materie prime, ma quelle scene di moribondi e di sfruttati sono praticamente le stesse.
Per non parlare delle velenose esalazioni che le donne di Kamituga sono costrette a respirare per frantumare le pietre estratte dai cunicoli scavati dai bambini. Ecco la schiavitù moderna. Esattamente come quella antica, solo un po’ attenuata e meno appariscente di quella di un tempo. Una evidente violazione dei diritti umani.
E un’altrettanto evidente questione di giustizia che ci riguarda da vicino. L’oro di Kamituga, al prezzo conveniente con il quale viene acquistato, finisce anche in Italia: nelle numerose aziende di lavorazione dei metalli preziosi, nelle oreficerie che producono gioielli che ci rendono famosi nel mondo. Se quell’oro fosse acquistato al giusto prezzo, molte di queste aziende non starebbero più sul mercato, sarebbero costrette a chiudere. Il settore potrebbe entrare in crisi e mettere in crisi l’indotto. Ci sarebbero disoccupati, meno potere d’acquisto nel nostro Paese con tutto ciò che ne consegue. In Italia si mobiliterebbero i sindacati e le sinistre per difendere posti di lavoro e potere d’acquisto dei salari. Tutto giusto. Ma è evidente che c’è una contraddizione che, quando parliamo di diritti umani, dovremmo sapere di dover affrontare.
Certo, mi si obietterà che tutto ciò è molto, forse troppo schematico e che la realtà è più complessa. Insomma, che questa semplificazione è fuorviante.
D’accordo, ma ciò che avviene con l’oro di Kamituga avviene con molte altre materie prime. Basta pensare al petrolio o ai prodotti dell’agricoltura come il caffé, il cacao, il cotone, le arachidi. Evidentemente una contraddizione c’è e appare sempre più chiaro che parlare di diritti umani senza mettere in discussione il nostro sistema della crescita perpetua, del benessere forzato, dello sviluppo univoco è qualcosa che non sta in piedi, che non è coerente.