La dignità in arabo

Medio Oriente musulmano e diritti umani: storia delle Primavere arabe, viaggiando attraverso i diversi Paesi coinvolti.
Paolo Dall'Oglio

Questo intervento non intende fornire uno studio documentato e metodico sulla situazione dei diritti umani nell’agitato Medio Oriente del 2011.
Amnesty International ha prodotto uno studio interessante su quest’anno di sofferta e differenziata Primavera araba. Qui si vuole provare a osservare questo complesso panorama avendo nella testa e nel cuore una preoccupazione per il futuro e soprattutto cercando d’indicare una direzione all’impegno evangelico in “complicità” interreligiosa e filantropica.

I movimenti
Si parla di Primavera abortita. Osservando la crescita determinante dei movimenti politici di natura musulmana, sia sul piano dell’attivismo, anche armato, rivoluzionario, che su quello elettorale post-rivoluzionario, sembrerebbe che i giovani democratici di facebook, guadagnati alle costellazioni simboliche occidentali (diritti dell’uomo, laicità dello stato, emancipazione di genere, welfare, società civile, ecc.) e allo stesso tempo portatori d’un’esigenza di giustizia di matrice marxista, siano gli sconfitti di questa stagione per certi versi eroica.
Non siamo nel numero di coloro che hanno considerato abortite le rivolte tunisina ed egiziana. La dinamica movimentista giovanile, che si coniuga anche ormai coi movimenti degli “arrabbiati” in Europa e in America, non si è spenta e non si arrende alle derive neo-autoritarie, dove rischiano di saldarsi gli interessi dei privilegiati dei vecchi regimi con i partiti musulmani vittoriosi. Occorre sperare e operare coerentemente per la protezione delle conquiste rivoluzionarie. È indubbio che, in diversi modi, i movimenti politici musulmani sembrano ormai convinti dell’insuperabilità della democrazia. Bisogna altresì riconoscere l’apporto dei giovani musulmani decisivo per il rovesciamento dei regimi. I teologi musulmani sono all’opera nel tentativo d’armonizzare legge rivelata e auto-determinazione della società civile. Sembra, per certi versi, di assistere alle discussioni italiane sul divorzio del 1974 o a quelle più recenti sul testamento biologico. La tendenza dei “Fratelli musulmani” è, da questo punto di vista, più matura, rispetto al loro passato, e già avvezza ai compromessi con l’organizzazione moderna dello Stato. Anche le esperienze degli esuli in Europa hanno concorso a questa maturazione.
Più difficile è la questione relativa ai movimenti salafiti oggettivamente contigui a quelli più violenti e che si rifanno volentieri, sul piano simbolico, alla galassia della Qaeda di Bin Laden. Si tratta di vaste parti della popolazione, soprattutto proletaria, che non sarà facile inserire nella dinamica democratica e che han perso la coscienza tradizionale del buon vicinato interreligioso. E, tuttavia, la mutazione culturale coinvolge anche loro verso l’accoglienza del pluralismo sociale pur nella rivendicazione di natura confessionale.

Viaggio nei Paesi
In Tunisia, a parte la questione berbera, la dinamica è quella tra “laici”, promotori dello Stato secolare e del modello social-democratico, e “religiosi” fautori della ri-sacralizzazione sociale islamica. Se si è d’accordo a non rompere il prezioso giocattolo istituzionale democratico sulla base di assoluti ideologici, lasciando in definitiva alle dinamiche dell’evoluzione civile popolare l’ultima parola attraverso le urne, i sindacati, le ONG, le organizzazioni di base ecc., allora forse il guado è attraversato e la sponda della stabilità istituzionale raggiunta. In questo senso la Tunisia potrà continuare a giocare un ruolo guida e di esempio.
In Egitto è tutto più complicato. La questione copta è drammatica; sia perché culturalmente c’è un’assoluta indisponibilità a ritrovare le umiliazioni della condizione di “protetti” all’interno dello Stato musulmano, sia perché non c’è stata una maturazione paragonabile a quella del Vaticano II riguardo al discernimento teologico circa lo statuto e il valore dell’esperienza musulmana nella storia della salvezza. Non potranno non esserci tensioni nel processo di costruzione della comune cittadinanza. È auspicabile che le solidarietà internazionali espresse dalle Chiese (cattoliche, ortodosse e protestanti) non si prestino a sostenere e finanziare un confessionalismo vittimista che non potrà in definitiva che nuocere ai copti stessi. Certo che ci vuole l’aiuto puntuale e ben orientato alle Chiese sorelle dell’Egitto! Tuttavia il grosso dell’impegno dovrà essere di natura sociale e culturale volto a favorire in modo realistico delle solidarietà trasversali e dialogali. Si tratta pure di valorizzare e ritrovare le migliori tradizioni di buon vicinato che, lungo i secoli, hanno espresso un’ortoprassi nel sacramento del vivere assieme che assurge a luogo teologico.
Nel conflitto libico era estremamente difficile prendere posizione a favore o contro l’intervento armato della NATO, seppur autorizzato dalle prese di posizione della Lega araba e dell’ONU. Da un lato, evidentemente, le amicizie clientelari, nella logica del potere accaparrato di generazione in generazione e della politica internazionale come mercato senza regole, hanno tentato di salvare il dittatore e gli interessi che impersonava, al limite anche accettando l’ipotesi d’una spartizione del Paese. D’altro canto, il pacifismo internazionale anti-imperialista ha visto nella guerra civile libica, con coinvolgimento occidentale dal cielo, l’ennesimo avatar degli interventismi armati in appoggio agli interessi capitalistici specialmente petroliferi.
È noto che lo strascico di violenze non è concluso e che uno sforzo duraturo deve essere perseguito al fine di rafforzare la democrazia libica. Essa sarà esplicitamente islamica e collegata strettamente con la tendenza politica musulmana sunnita emergente in tutto il Medio Oriente.
Le due monarchie che hanno imboccato la via per diventare “costituzionali”, il Marocco e la Giordania, devono entrambe darsi strumenti istituzionali a salvaguardia della complessità sociale che le caratterizza. La monarchia nord-africana deve fare i conti con i berberi e i sahrawi e quella trans-giordana con la forte presenza palestinese. Nella prima c’è, inoltre, una significativa e tradizionale presenza ebraica e nella seconda un’altrettanto antica presenza cristiana araba.
Gli altri Paesi sono meno fortunati, e le popolazioni soffrono in proporzione. Lo Yemen è da mesi a rischio di disgregazione e di impantanamento nella conflittualità tribale armata. E tuttavia anche qui è in fase di maturazione un’efficace solidarietà interaraba in grado di consigliare, ed eventualmente imporre, delle soluzioni. Qui pure la comunità internazionale deve, in modo duraturo, cercare d’aiutare questo Pae-se ad accedere alla democrazia matura. Lo si deve allo Yemen, dopo decenni di complicità malintenzionata tra profittatori occidentali e corrotti locali. Quel complesso Paese pone più di altri la questione del rispetto delle specificità confessionali, tribali e geografiche nella regione. Qui addirittura si rischia che si creino emirati religiosi estremisti e la solidarietà internazionale dovrà in qualche modo assumersi delle responsabilità.
Nel Bahrein la tensione tra maggioranza sciita e minoranza sunnita, legata al potere del re, ha snaturato il processo rivoluzionario rendendolo un conflitto inter-confessionale e di fatto trasformandolo in un campo di battaglia tra area sciita, orbitante intorno all’Iran, e area sunnita del Golfo cliente dell’Occidente. La stessa problematica complica, con diverse sfumature, anche l’evoluzione di Paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita. Si è creata, così, una grave situazione di crisi relativa ai diritti umani e che certamente non ha trovato l’eco adeguata nel mondo occidentale e negli altri Paesi arabi a causa delle solidarietà petrolifere e della tensione “nucleare” nei confronti della Repubblica islamica dell’Iran oltreché del sentimento confessionale.
Non si può dimenticare la grave problematica irachena. Per decenni l’Iraq di Saddam è stato un inferno quanto ai diritti umani. È noto che nulla è migliorato con l’occupazione occidentale. La problematica inter-etnica (curdi, arabi, turkmeni, assiro-caldei) e quella inter-comunitaria (sciiti maggioritari, sunniti, cristiani, yaziditi ecc.) hanno fatto da letto di tortura per questo popolo crocifisso. Il fatto che le tensioni regionali e globali trovino nell’Iraq un teatro privilegiato non rende per nulla facile il dopo occupazione.
Delle considerazioni analoghe si potrebbero fare anche per l’Iran stesso, l’Afganistan, il Pakistan e oltre, in Asia, e nei Paesi a Sud del Sahara, per l’Africa. Ma, volendo attenerci allo spazio arabo e alla sua Primavera, occorre osservare che è, di fatto, la prima volta, nella storia araba, che l’autodeterminazione di questi popoli ha l’occasione di esprimersi democraticamente in tutta la sua complessa differenziazione. L’Impero ottomano esercitava il potere in modo feudale e militare, con largo impiego della tortura (famosa l’impalatura), su un mosaico etnico e religioso. Le potenze coloniali interruppero i processi di maturazione nazionale delle diverse entità dell’impero e si operò invero un cambiamento verso la modernità delle mentalità (stato di diritto, inviolabilità della persona umana), ma unito al sopruso praticato dall’occupante spesso in continuità con le pratiche inumane precedenti.

Dittature
Le cose non cambiarono sostanzialmente con la creazione degli Stati nazionali dopo la seconda guerra mondiale, nonostante un’ulteriore evoluzione delle mentalità, coeve della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della spinta alla decolonizzazione favorita dagli USA e, per altri versi, dall’Unione sovietica e dai Paesi non allineati. Si è introdotta così una sorta di schizofrenia tra l’assunzione di principi relativi alla dignità umana e all’inviolabilità dei diritti da una parte e la continua testimonianza d’incoerenza da parte dei poteri internazionali dall’altra. Il colmo dell’insopportabilità è rappresentato, nell’immaginario collettivo arabo, dall’ingiustizia praticata dallo Stato sionista. Israele diventa la portaerei dell’Occidente liberticida e il torturatore degli arabi, in fondo odiati a causa della loro irrisolvibile e insolubile differenza.
Osservando l’evoluzione post-bellica, si ottiene la percezione che le quasi-democrazie e le dittature militari arabe degli anni Cinquanta e Sessanta passano a trasformarsi per gradi in strutture totalitarie costruite sull’uso dell’ideologia (indipendenza, lotta contro Israele, anti-imperialismo ecc.) come base per le cristallizzazioni clientelari e di interesse più disinibite d’ogni scrupolo umanitario e spesso colluse con la malavita internazionale. Si ottengono così delle società malate, sfruttate dai cartelli economici internazionali attraverso la mobilitazione delle caste al potere che si vanno caratterizzando sempre di più come corti dinastiche, e tuttavia obbligate a rifarsi una legittimità popolare attraverso la polemica anti-israeliana e, più o meno, antioccidentale.
Dopo gli imperi, le colonie e le dittature, non è più sopprimibile il desiderio d’auto-determinazione delle componenti culturali predominanti nei diversi Paesi o nelle diverse regioni. Questo non manca di provocare tensioni anche violente e tendenze alla disintegrazione dell’unità nazionale (Sudan, Nigeria, Ciad, questione copta in Egitto, guerra civile siriana, parcellizzazione dell’Iraq, cantonizzazione libanese …). La democratizzazione rende più difficili le questioni relative alle differenziazioni confessionali ed etniche. Basti pensare ai Balcani! E quando c’è la guerra ci vanno di mezzo i diritti umani di tutti.

Della Siria
Dovrei forse parlare in dettaglio della situazione siriana che ha e avrà un impatto diretto sugli equilibri mediterranei. Le autorità statali ed ecclesiali mi chiedono di astenermene perché io non m’intrometta negli affari interni del Paese.
Dico solo che i giovani magnifici, che pagano di persona per cercare di salvare la patria e la dignità, meritano che s’interrompa l’escalation della guerra civile già iniziata e che subito s’inneschi un processo negoziale di cui la condizione principale sarà la libertà d’espressione e d’informazione, insieme alla totale rinuncia, da parte dell’autorità, di limitare e reprimere la libertà d’opinione. Un passo positivo è stato compiuto dal governo nelle scorse settimane accettando la presenza degli osservatori arabi e l’ingresso nel Paese d’una significativa rappresentanza della stampa mondiale. Salutiamo il sacrificio del cineoperatore Gilles Jacquier, vittima, anche per motivo della strumentalizzazione partigiana, del conflitto armato nella città di Homs, teatro da molti mesi d’un confronto senza regole con enorme danno per l’incolumità e la dignità umane di tutti. L’ho domandato in tante occasioni sperando di essere ascoltato qui, in patria, e all’estero: perché la Siria non potrebbe essere il luogo dell’armonia nel contenzioso USA- Russia e l’occasione di composizione della concorrenza turco-iraniana? Perché questo Paese d’antichissima civiltà non può oggi essere scuola di risoluzione del confronto tra sunnismo e minoranze musulmane, magari con un apporto di mediazione da parte dei cristiani, i vicini di casa di sempre, di questi e di quelli? Ma la mediazione pacifica richiede coraggio e spirito d’iniziativa. Un vescovo siriano ha insinuato in un’intervista al canale TV France24 che io sarei favorevole all’intervento armato straniero. È vero, invece, che mi sono opposto alla guerra dell’Afganistan nel 2001 dando la mia disponibilità per aiutare, a qualunque rischio, a trovare una soluzione negoziale. Ed è vero pure che, con tutta la comunità monastica, digiunammo nell’inverno del 2003 per opporci all’invasione dell’Iraq senza per questo ritenere che la comunità internazionale avesse il diritto di assistere passivamente al lungo martirio di quel nobile popolo. Sì, nel quadro d’un intervento in diretta alla televisione al-Jazeera, nel quale stigmatizzavo l’operato delle “TV armate” – che impediscono e svuotano, invece che servire, i tentativi di dialogo nazionale – avevo invocato l’iniziativa internazionale nonviolenta per la protezione almeno degli ospedali e dei campus universitari. La situazione diventa ogni giorno più insolubile e le sofferenze della popolazione più insopportabili. Ricevo in continuazione, anche oggi mentre scrivo, le drammatiche confidenze di giovani, di uomini e di donne, coinvolti in questa tragedia dalle due parti, o stritolati in mezzo. Una bimba di Homs, costretta a correre da scuola a casa sotto i proiettili, si commuove per il destino del cineoperatore francese ucciso nel suo quartiere … Due ragazzi musulmani mi chiedono una parola di consiglio prima di entrare in una città in sommovimento: “Conservate – dico – la dignità umana di coloro che vi avversano. Essa è indivisibile dalla vostra propria dignità”. Un giovane musulmano, che è stato in prigione per aver manifestato pacificamente, viene a trovarmi insieme a una sua collega cristiana. Mi chiede come andare avanti a fronte della militarizzazione del conflitto. Gli rispondo che mantenere il grosso del movimento nello spazio della non violenza è condizione per una Siria civile domani. I diritti che non sappiamo conservare a chi ci reprime durante il processo di trasformazione non si potranno conservare poi. E alla giovane, che vede scandalizzata i ragazzi cristiani in armi alle porte del suo villaggio, ripeto che la priorità è quella d’investire a ogni costo sulla volontà di tanti siriani di vivere assieme come in cielo così in terra. Ho incoraggiato a prendere posizione contro i rapimenti, gli assassinii e gli atti di vandalismo e sabotaggio delle istallazioni dei servizi comuni. Non è così che si finanzia o si sostiene il cambiamento e la riforma. Salvaguardare la dignità umana di tutti è una promessa di democrazia e spegne quella fobia dell’altro e del nuovo, quel terrore incontrollato, che è l’alleato più efficace dei sistemi autoritari. Le soluzioni che andavano bene sei mesi fa e tre mesi fa sono inutili oggi, ma la riconciliazione attraverso il negoziato rimane l’unica efficace. Una ragazzina ha disegnato il logo della nostra azione per la riconciliazione: i colori patri, usati per due rami d’olivo, coi neri frutti dei nostri martiri, quelli dei diversi schieramenti e quelli non schierati. Ne ho fatto una stola con la quale ho celebrato a Natale con le famiglie e gli amici dei caduti. Oggi, ancora una volta, chiediamo cinquantamila “accompagnatori” nonviolenti e disarmati, espressi dalla società civile planetaria, non da quella “internazionale” accusata qui di complottare contro il popolo siriano. Li chiamo “accompagnatori” perché devono essere più impegnati degli osservatori e perché non preparano la via all’intervento militare. Penso alla Croce e alla Mezzaluna rosse, al Non Violent Peace Force, agli Scout, a LIBERA, alla Sant’Egidio del ministro Riccardi, alla galassia delle ONG e dei collettivi di base; a realtà laiche, religiose e interreligiose. Si dirà che questo non impedisce l’azione dei “terroristi”. Tuttavia la può circoscrivere e consentire l’espressione del dissenso nonviolento e quindi permettere le riforme volute anche dal governo e dal presidente. Potranno anche monitorare, accompagnare, insieme alla stampa libera, gli interventi della polizia richiesti dalle popolazioni locali per impedire l’espandersi della criminalità.
Allora i siriani potranno decidere del loro Paese democraticamente, scegliendo anche quella formula costituzionale più adatta a valorizzare il loro mosaico nazionale senza disperderne le tessere.
Guardando più in là, il mio augurio, la mia testarda speranza, è che qualcuno si decida a distribuire delle carte d’identità planetarie, col nome ma senza il sesso, la città ma non la nazione, il gruppo sanguigno ma non l’etnia, e nessun riferimento alla religione, per dire la sacralità di noi tutti. Forse un giorno si dirà che la Primavera araba fu un passo decisivo in quella direzione.

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