L'acqua era così buona
Sono passati vent’anni e la profezia sembra aver abbandonato la storia. Oggi più che mai il canto di David è attuale. Lo vogliamo ricordare con il monito che lasciò ai giovani all’arena di Verona: “O l’uomo è uomo di pace o non è uomo”.
Sono passati vent’anni da quel canto strozzato. Morì David Maria Turoldo nei giorni più rigidi dell’inverno in quel 6 febbraio di brina sulle lapidi dei cimiteri. Il drago non faceva più paura come il giorno in cui si sedette come un re sul trono proprio nel centro esatto del suo ventre. Quando la bestia apparve sul monitor del dottor Waldthaler a Bressanone era piena estate, agosto 1988. Ci vollero alcuni giorni per avere il referto esatto di tanto dolore. Glielo portò l’amico Sandro Bonardi, che gli fu vicino in quei momenti difficili, durante il ritiro al santuario di Pietralba: “Entro in refettorio – racconta Bonardi – e trovo Davide, solo, seduto al posto vicino alla porta della cucina. Allora decido. Gli dico: ‘Davide hai un cancro al pancreas’. Risponde sereno, ma con la consueta voce baritonale, e dando un pugno sul tavolo, liberatorio dopo mesi di tensione: ‘Finalmente so cosa ho, non potevo sopportare che mi dicessero che non avevo niente, come una giovane innamorata. Quello che mi dispiace è che, vedrai, morirò sotto la costellazione di...’. E nominò un eminente politico allora al governo”.
Tra terra e cielo
Da quel giorno sono passate altre estati e sono finiti altri inverni. Turoldo ha fatto del dolore un canto divino fra terra e cielo. Ha continuato a scrivere, a parlare. Urlò, con la voce degli oceani, lo scandalo della guerra nell’arena di Verona stracolma di pacifisti durante la convention dei Beati i costruttori di pace del 1990: “O l’uomo è uomo di pace o non è uomo!”. Ha vissuto fino all’ultimo respiro, facendo patti col diavolo, chiamando amico e fratello il mostro che si era insinuato nella sua vita.
Sono passati vent’anni, ma è sempre più difficile trovare un ambito, un luogo, un territorio per definire David: frate, poeta, scrittore, esegeta, predicatore, regista. Dovunque lo si collochi, l’uomo-Turoldo scompare.
Colse nel giusto Giovanni Giudici (anche lui poeta-migrante, vagabondo in quel luogo-non luogo senza indirizzo e senza telefono) quando scrisse che “difficilmente si potrebbe reperire negli annali un pari esempio di così perentoria, sorprendentemente trasgressiva, coincidenza e inscindibilità, tra vocazione alla parola e testimonianza della parola” (prefazione ai Canti Ultimi). Quello che a noi appare singolare, per Turoldo era normale, una conseguenza naturale di una vita divina, levigata dalla Parola di Dio.
E come si fa a dare forma poetica alla Parola, senza rimanere imbrigliati e scandalizzati da quel monito perentorio, da quell’annuncio di nuovi cieli e nuove terre? “Non ho mai avuto il bisogno di scegliere – rispose pochi mesi prima di morire al vaticanista Luigi Accattoli – per me poetare e pregare è la stessa cosa. La mia poesia viene dalla Bibbia e dai Salmi”.
Ecco perché non c’è frattura fra l’uomo Turoldo, il poeta Turoldo e il frate Turoldo. Scrivere era come sentire la voce degli abissi che si manifestava attraverso il rombo inquietante della storia, che di volta in volta egli trascinava a giudizio.
Turoldo sapeva benissimo che la Parola vive nelle periferie delle città, dove accampano i poveri, gli oppressi, i miserabili, gli esuberi rigettati dal mondo. Sotto quell’orizzonte egli ha imparato a guardare le cose, fin dalle origini. Quella dei poveri, infatti, era la sua casa, la sua famiglia in quel paese friulano, Coderno di Sedegliano, dove era possibile condividere perfino la miseria: “Dietro la porta della nostra casa – era solito ricordare Turoldo – c’era sempre una scodella che veniva offerta, con un pugno di farina, ai viandanti che avevano fame”. Quella scodella era il simbolo di una gioia ridotta all’essenziale, una gioia che oggi è stata turbata dal caos del superfluo: Allora l’acqua era così buona / la poca polenta riempiva la casa di profumo / il latte, il latte succhiavamo a gocce / quasi fosse miele / Ora la mamma mia non ha più sorprese /nemmeno il pane ha più sapore.
Con gli sconfitti
Una deriva umana che Turoldo considerava una sorta di guerra aperta sul proscenio del mondo, dove la morte (perfino la morte!) diventa un oggetto riproducibile in serie. Egli stava sempre dalla parte degli sconfitti, degli oppressi, dei dannati. Nel 1962 realizzò anche un film, con la collaborazione di Pasolini, che era un suo amico, dal titolo “Gli ultimi”, che ricostruisce la storia feriale dei contadini legati, con le loro povere radici, alla terra del Friuli.
Agli ultimi di qualsiasi latitudine, Turoldo è rimasto fedele sempre. Fu proprio lui a far conoscere, in Italia, la storia di Rigoberta Menchù, la donna guatemalteca discendete dei maya, sopravvissuta all’operazione “Terra rasada” ordinata dalla dittatura per eliminare ogni elemento di disturbo nella furibonda lotta per il controllo del potere (migliaia e migliaia di contadini furono massacrati senza pietà). Ma Turoldo ha cantato anche gli anonimi, gli ultimi degli ultimi che non possono nemmeno far conoscere al mondo la proprietà come la povera che dorme entro i giornali nel centro di Milano: C’è una povera in via Chivasso / che non può più camminare, / e dorme entro i giornali / nessuno di quelli che stanno / di sopra / ha tempo di scendere e salutare. / Per lei è di troppo / un po’ di scatole per guanciale / e stare / nel cuore di Milano.
La morte è sempre stato un grande tema turoldiano, che passa trasversalmente lungo tutta l’opera. Egli brindava alla vita, certo, ma in questa civiltà delle guerre, degli eccidi, degli assassini e degli scempi armati, l’uomo della Parola non poteva rinunciare a dire, a cantare lo scandalo della violenza: Primo comandamento di tutti gli eserciti / tu non avrai altra ragione / all’infuori della ragione (impazzita) / di colui che ti manda / I soldati devono solo uccidere / ed essere uccisi.
La morte orribile delle guerre, Turoldo l’ha sempre denunciata: Provate a udire nella notte / l’infinito e silenzioso urlo degli ossari: / Uccideteci ancora e sia finita!
Così ha cantato le vittime sacrificali dell’odio umano. Bellissimi i versi in ricordo del domenicano frei Tito, suicida accanto al convento di Lione dopo essere fuggito alle diaboliche torture della dittatura brasiliana, che lo considerava, insieme al grappolo di confratelli, come nemico del potere, avversario dei generali.
Che Dio ci perdoni / ci perdoni di esistere / ci perdoni di dirci cristiani / ci perdoni di questi anni / santo Frei Tito / ancora pendente all’albero / (della vita nel nuovo giardino) / davanti al convento di Lione.
La riflessione sulla morte, come effetto dirompente dell’ingiustizia planetaria, porta Turoldo anche a impegnarsi in prima persona, con la predicazione, l’azione e l’orazione in un’opera appassionata di tenace opposizione alle guerre, che si sono combattute in questo secolo. Memorabile la lotta nella resistenza milanese. Turoldo organizzò un gruppo di giovani antifascisti, cattolici, socialisti, comunisti, azionisti, insieme all’amico di sempre Camillo de Piaz.
Ma di qui, poi, attraverso le vicende storiche che hanno scandito questi ultimi cinquant’anni, la voce critica di Turoldo si è sempre inserita per denunciare ogni forma di violenza, dal conflitto in Vietnam, ai disordini delle dittature latinoamericane (quanta devozione per i martiri latinoamericani, a partire dall’arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero!), fino alla guerra del Golfo, che egli considerava un atto oscuro nella barbara storia dell’Occidente dominatore.
Fino all’ultimo respiro Turoldo è rimasto un resistente. Ha vissuto lottando la bestia fino a rendersela amica. Per questo ha amato, per questo è stato amato.
Padre Balducci salutò David con queste parole: “Sono sicuro che egli ha avuto quello che pochi hanno avuto (…) David ha avuto un segno di tenerezza da parte di Dio, che quasi mi fa invidia. Questo ci assicura che il suo nome è consegnato non solo alla memoria di noi amici, ma alla memoria della Chiesa e della società italiana. È un punto di riferimento che non si potrà più cancellare”.
Due mesi più tardi Balducci morirà all’improvviso in un incidente stradale nei pressi di Cesena. Il 1992 segna il deserto della profezia in Italia. Sono passati vent’anni, il mondo è cambiato profondamente. Il declino dell’occidente continua. Aspettiamo che i profeti tornino dall’esilio: “Manda, Signore / ancora profeti / uomini certi di Dio / uomini / dal cuore in fiamme / a dire ai poveri / di sperare ancora //”