PAROLA A RISCHIO

B come BRACCIA...

Alla scoperta dell’Altro. Da cercare con braccia protese, verso l’altro-da-sè, verso l’invisibile, verso il tutt’altro.
Giovanni Mazzillo (Teologo)

La riflessione sulla pace fa spesso riferimento al volto. Volto come icona e come relazione. Come appello e come realtà umana primaria: da guardare, da accarezzare, da consolare. Ma anche come luogo e come strumento di intesa e d’amore. Come sorriso e come specchio dell’Invisibile.
Il volto presuppone e richiama le mani e le braccia. Le proprie braccia e quelle dell’altro. Le proprie: in quanto braccia che si protendono al di là di se stessi, come a voler sollevare se stessi. Sono braccia protese verso il cielo e così appaiono in alcuni graffiti preistorici, in mezzo a scene di caccia e di vita ordinaria; tra animali fuggenti o feriti, su linee che forse vogliono rappresentare la superficie della terra, e in mezzo a simboli che evocano gli alberi. Eppure proprio ciò verso cui le braccia si elevano non ha alcuna visualizzazione. Quelle braccia sembra che si protendano verso l’invisibile. Appunto verso ciò che non è riproducibile nemmeno con una semplice linea o un segno alludente a una qualsiasi forma.

Altri, non alieni
Secondo alcuni, è la prima commovente testimonianza dell’esperienza della “preghiera” nella preistoria. In realtà, le braccia protese al di là di noi stessi sono la testimonianza di una struttura umana costitutivamente tendente verso l’altro. Verso l’altro in tutte le sue forme e in tutta la sua ricchezza. Innanzi tutto, verso l’Altro che si trascrive con la lettera maiuscola e che quanti vogliono salvaguardare nella sua irriducibilità all’umano chiamano il “tutt’Altro”. Il tutt’Altro rispetto al quale non si può e non si deve ignorare che da quella Suprema Realtà noi proveniamo e di Essa portiamo le incancellabili tracce. Altrimenti non ne potremmo nemmeno parlare come tutt’Altro, ma solo come il “tutto indefinibilmente alieno”.
L’Altro che noi identifichiamo in Dio è, infatti, non un Supremo Alieno né un’alienazione. Al contrario è, come affermava Paolo all’Aeropago di Atene, Colui “in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo… poiché di lui stirpe noi siamo” (At 17,28).
È vero: non è Lui che proviene da noi, non siamo noi ad averlo prodotto. Ma, piuttosto, siamo noi a provenire da Lui, perché “Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17,26-27).
Paradossalmente protendiamo le braccia verso quanto c’è di più diverso da noi, ma anche di più proprio. È il vicinissimo e lontanissimo Dio. “Il nostro Padre non è ‘altrove’: egli è ‘al di là di tutto’ ciò che possiamo concepire della sua Santità. Proprio perché è tre volte Santo, egli è vicinissimo al cuore umile e contrito” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2794).
Egli è quanto c’è di più diverso, ma ci sporgiamo verso di lui perché ne conserviamo l’immagine e la provenienza. Di più diverso: perché corporeità, mortalità, peccaminosità, litigiosità e violenza, e quant’altro ci appesantisce, dimostrano anche la difformità dall’originale e da Colui dal quale proveniamo. Ne segnalano indubitabilmente una decadenza e una caduta. Caduta non tanto di stile, ma di grandezza: nel senso di un collasso, come una sorta di implosione di un valore che da tensione verso l’infinitamente Positivo degenera in una realtà negativa che distrugge e si autodistrugge. Senza tuttavia potervi riuscire completamente, perché l’Infinito dal quale proveniamo possiamo senz’altro oscurarlo, degradarlo e ferirlo, ma non possiamo mai azzerarlo.
Ma qui la Grazia ha la sua rivincita sull’ombra, per riprendere il binomio di Simone Weil, sulla pesantezza, sulla grevità, per essere più fedeli alla formulazione originale. L’Infinito si può offuscare, ma non estinguere. Nemmeno dentro di sé. Nessuno potrà cancellare dal suo cuore la nostalgia del bene. Nessuno potrà sradicare, anche dal fondo della suprema abiezione, il bisogno dell’amore. Amore mancato, forse tradito, amore come spazio che sempre rimane a disposizione per tutti, nonostante non si sia raggiunto l’obiettivo.

Protési
Ebbene, le braccia esprimono questo bisogno e questa nostalgia. Tendendo oltre noi stessi, ci protendiamo verso qualcosa che ci appaghi e ci realizzi. Qualcosa che non si incassa, come in una sorta di carriera finalmente realizzata, ma che dia la ragione prima e ultima del vivere: realizzi ciò che a buon diritto, perché ne ha tutti i titoli, possiamo chiamare pace.
Le braccia che si allargano verso l’altro sono, in secondo luogo, braccia che si protendono, come dice il nome da cui il termine proviene, verso un abbraccio. Sembrano essere fatte per cercare la presenza e la corporeità dell’altro: la sua realtà concreta, proprio quella e non un’altra, che ci appare circoscritta dal suo spazio e segnata dal suo tempo. Le braccia protese hanno la loro giustificazione e la loro ragione d’essere nell’incontro con il proprio simile. In questo caso, cercano ancora l’Infinito, ma nella fisicità e nella storia del finito, che tuttavia rimane sempre come sacramento inenarrabile e inesauribile dell’Infinito.
Dopo un’incomprensione, al seguito di una lite o di un’offesa, non importa se sia venuta da parte nostra o da parte dell’altro, cerchiamo tanto più una tale presenza, quanto più l’altro ci sta a cuore e lo sentiamo parte integrante della nostra vita e della nostra storia. Tra le esperienze più belle che la vita ci offre c’è sicuramente quella delle braccia che si protendono le une verso le altre: quelle del bimbo verso la madre e viceversa; quelle dell’amico verso l’altro nel momento, sempre carico di mistero oltre che di gioia, del ritrovarsi; quelle di due prima di allora “nemici”, ma che cancellano ogni rancore attraverso l’andarsi incontro.
L’importanza di ciò che andiamo dicendo è, infine, sintetizzata dalla frase: “Mi fai cadere le braccia”. L’espressione segnala il venir meno della voglia di fare, quando vengono a mancare non tanto le forze, ma le motivazioni per agire. L’impegno finora profuso passa per un ripensamento e anche l’agire per la pace può subire una o più battute d’arresto. Cosa fare allora? Reagire, spingendo lo sguardo e il cuore più in alto. Dire a se stessi e ai compagni di viaggio: “In alto i cuori!”. I cuori e le braccia, appunto, come succede nella liturgia, quando, mentre si pronunciano queste parole, si sollevano ancora più in alto le braccia.
Verso Dio e verso gli altri.

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