Il velo (islamico?)

Dalla legge sulla laicità a una politica di integrazione
8 marzo 2004 - Giancarla Codrignani

Il Manzoni anticipa i sospetti sulla Monaca di Monza dando al personaggio un tocco di ambiguità peccaminosa, la piccola ciocca di capelli che esce dal velo monacale. Una suora vissuta davvero nel XVII secolo, Arcangela Tarabotti, sosteneva, nel suo libro L'inferno monacale, che gli uomini davvero odiano le donne se arrivano a rasare il capo delle consacrate al Signore.
I capelli sono ritenuti, dunque, pericolosamente (per le donne) seduttivi e le donne perbene hanno dovuto sempre coprirli, dai veli delle matrone dell'antica Roma ai cappelli e cappellini che hanno troneggiato sulla testa delle signore perbene – mentre le contadine portavano il chador e vestivano di nero – fino alla seconda guerra mondiale. Per andare in chiesa, peraltro, anche oltre gli anni Cinquanta, era buona usanza mettersi un foulard (e perfino incredibili fazzolettini) sul capo a commemorazione del paolino velato capite taceant, che, per fortuna, noi cristiane occidentali abbiamo messo in soffitta, come del resto le suore che hanno gradualmente (e tacitamente) abbandonato le ampie ali inamidate dei loro veli per poter muoversi senza impacci.
Adesso è il turno delle islamiche: all'interno dei paesi musulmani incominciano a ribellarsi, pur non senza conflitti per la resistenza di un costume che segrega le donne, "proprietà" dell'uomo che impedisce loro le libertà individuali e sociali.
D'altra parte, norme consuetudinarie passano ovunque per canoniche e non rispecchiano quasi mai il senso dei messaggi originari. Come Gesù sostiene la libertà di tutti i figli di Dio, forse addirittura a partire dalle donne, così neppure il Corano prescrive il chador o l'hijab a nessuno. A una donna occidentale che faceva presente questo falso dovere un musulmano ebbe a dire che "comunque i capelli eccitano l'uomo", ma non seppe uscire dall'imbarazzo quando fu richiesto di spiegare come mai le donne non fossero eccitate dagli uomini generalmente barbuti. In realtà, le donne sanno che, tutte le volte che si menziona il loro pudore, non si tratta mai
di religione, ma di controllo sociale.
La questione è tornata a farsi seria in Europa, dopo che la Francia ha votato la legge sulla laicità voluta dal governo Chirac e votata anche dall'opposizione: potrà impedire a ragazzine islamiche di accedere alla scuola con il foulard, ma non potrà mai censurare le barbe degli uomini. Il solito riflesso condizionato della cultura maschile che non si avvede delle discriminazioni e contraddizioni che determina? Ebbene sì, il solito riflesso condizionato. Tuttavia la normativa francese si è posta in termini generali, investendo seriamente il senso della laicità, che, anche se è stata sempre troppo poco insegnata per diventare valore diffuso corretto, non può farsi dogmatica. In un paese come la Francia, che finanzia la scuola pubblica e consente la funzionalità degli istituti privati e che, soprattutto, risponde con rigore al rispetto dello stato proclamato dalla rivoluzione del 1789, questa legge non lascia molto da eccepire. Quello che, invece, esce dagli schematismi della norma è il "senso" di una coerenza che viene a confliggere con la libertà e, secondariamente, ma non troppo, con l'opportunità politica.
Chirac constata le trasformazioni delle società e il moltiplicarsi degli scambi a mano a mano che cadono le frontiere. Va per questo in crisi l'identità francese? o non è piuttosto vero che si deve costatare il fallimento delle politiche d'integrazione? Se "tutti hanno contribuito a forgiare il nostro paese" – come diceva il presidente francese nell'intervento al Parlamento repubblicano il 17 dicembre 2003 –, mentre "si aggravano le disuguaglianze e si apre un fossato tra i quartieri difficili e il resto del paese", creare un "codice della laicità" ed estenderlo ai simboli esteriori dell'abbigliamento salverà "le conquiste della Repubblica che sono l'uguaglianza dei sessi e la dignità delle donne"? salverà i "valori repubblicani" che si incardinano nella legge di separazione fra lo Stato e le Chiese del 1905 una laicità della scuola che si realizza abolendo "il velo islamicoŠla kippa o una croce di dimensioni manifestamente eccessive"?
Circa le croci "manifestamente eccessive" avrebbero dovuto, caso mai, essere le chiese cristiane a dire qualcosa per una moda che imperversa anche sugli schermi televisivi imponendo croci poco sacre sfolgoranti falsi brillanti. Quanto a veli e kippa, occorre dire che il legislatore ha dimenticato l'identità – non francese, ma universale – dei giovani, che tengono a scelte di vestiario simboliche, ma senza riferimenti a problemi di coscienza e che, se gli vengono imposte, reagiscono con adolescenziale spirito di contraddizione. D'altra parte, diciamoci anche noi: nel caso che fossimo ebrei e non avessimo mai portato la kippa, non ci verrebbe voglia di mettercela qualora la legge la vietasse? Ma la questione (anche per l'enfasi che vi hanno posto sopra i media) riguarda "il velo delle donne". Davvero si pensa che valga la pena di difendere in questo modo la dignità femminile? Se nelle scuole si praticassero l'interculturalità e l'integrazione, la preoccupazione sarebbe quella di sapere se una ragazzina porta il chador perché lo vuole lei o perché, se non se lo mette, il babbo le gonfia la faccia di schiaffi e la chiude in casa; ma di questo dovrebbe essere responsabile la scuola pubblica, dentro la quale,anche senza leggi, è necessario che ci sia – laidamente – un buon rapporto docenti/studenti/famiglie.
Questo provvedimento viene percepito, invece, come provocatorio e forse costerà a qualche ragazza di famiglia integralista la prosecuzione degli studi; le "femministe" islamiche, prese di contropiede, pur fruendo dei vantaggi di parole liberatorie, cercheranno di contrapporsi con loro "libere" scelte e strategie; i rapporti di comunità non miglioreranno e qualche mecenate musulamno creerà istituti privati islamici, con quale vantaggio per gli spiriti di dialogo e tolleranza è dato immaginare.
La società che si vuole laica è un bene per tutti: sia tale nel suo autentico valore, di rinuncia dello Stato all'interferenza con la sfera della coscienza individuale, perché dove è garantita la democrazia non hanno senso le imposizioni. Quanto alle religioni, esse hanno propri statuti di autonomia e i credenti si regolano, appunto, secondo coscienza e senza far entrare le ragioni di una fede in conflitto con lo Stato.
È ovvio che i rischi di sconfinamento ci possono sempre essere, ma la via coerente è quella di confrontarsi sul piano delle idee. La scuola in questo modo può diventare l'agente migliore di una buona laicità e, perché no?, di un buon incontro con la storia delle religioni.
Liberté, égalité, fraternité vanno davvero rideclinate nel terzo millennio: sommessamente le donne dicono dai tempi della rivoluzione che l'égalité, per essere vera deve ammettere la diversité: uguali gli uomini e le donne, ma nel riconoscimento delle loro diversità; uguali anche i popoli secondo lo stesso schema.

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