Libia: storia di un colonialismo

… ho appreso … alcuni episodi raccapriccianti del nostro colonialismo in Libia negli anni 1911-43
8 marzo 2004 - Amalia Navoni

Recentemente ho fatto un viaggio nel deserto della Libia. Ne ho ammirato le bellezze, ne ho gustato il silenzio e ho appreso con sorpresa, dalla guida “Libia” di Andrea Semplici, alcuni episodi raccapriccianti del nostro colonialismo in Libia negli anni 1911-43.
Queste vicende sono state il “leitmotiv” del mio viaggio.
Alcuni fatti mi hanno maggiormente colpita: vi sono stati soprusi, atrocità, stermini, disprezzo per l’Altro e negazione della verità.
Quando nel 1911 con un motivo pretestuoso il liberale Giolitti scatena una guerra coloniale contro la Turchia che dominava la Libia, un contrattacco arabo-turco sorprende i bersaglieri italiani e ne uccide 500. La repressione militare è immediata e spietata: oltre 2000 arabi sono fucilati o impiccati e cinque mila vengono deportati in Italia e confinati nelle isole di Ustica, Ponza, Favignana e Tremiti.
La Libia chiede ancora oggi di sapere la verità sulla sorte dei libici scomparsi in Italia. Io, quando sono stata in queste isole, non ho visto alcuna traccia del passaggio di queste persone.
Poiché la resistenza libica era molto forte in Cirenaica, il generale Rodolfo Graziani, inviato da Mussolini nel 1930, non esiterà a mettere “a ferro e fuoco” tutta la zona.
Confisca le zavie, centri spirituali e assistenziali, sbarra con campi minati la frontiera con l’Egitto, annienta le mandrie e brucia i raccolti, usa gas e armi chimiche contro i civili. Tutta la popolazione dell’altopiano della Cirenaica, cento mila libici, viene deportata in campi di concentramento nel deserto della Sirte. In 40mila moriranno per fame, epidemie, violenze, uccisioni. Per tre anni staranno rinchiusi in questi campi delimitati da doppio filo spinato. Ogni atto di ribellione o tentativo di fuga era punito con la morte. L’impiccagione avveniva a mezzogiorno, al centro del campo, dove tutti erano costretti a radunarsi. Ogni giorno, dicono i sopravvissuti, 50 cadaveri uscivano dal recinto.
Naturalmente questi campi in Italia erano propagandati come paradisi dove fiorivano ordine e disciplina e regnavano igiene e pulizia.
Nel 1979 Gheddafi affida al regista siro-americano Mustafà Akkad l’incarico di girare in Cirenaica un Kolossal sulla resistenza libica contro gli italiani.
Il leone del deserto viene presentato a Cannes con un buon successo ma non sarà mai ufficialmente proiettato in Italia. “Il film è sgradito” dirà il sottosegretario agli esteri Costa nel 1981 e nel 1987 una proiezione a Trento verrà proibita dalla Digos.
L’Italia ancora negli anni ‘80 non sopporta di veder raccontata una storia coloniale intrisa di orrori e tragedie.
Abdullah, la guida che mi ha accompagnato nel deserto, mi ha confermato quanto è vivo in loro il ricordo dei centomila libici deportati nel deserto nel 1932 e dei cinquemila deportati nelle nostre piccole isole nel 1911 di cui non hanno saputo più nulla. I libici aspettano ancora la mappa delle mine disseminate nel deserto che ancora oggi causano morti e mutilazioni.
I libici sono anche consapevoli che il popolo italiano, nella stragrande maggioranza, è all’oscuro delle atrocità che hanno accompagnato e sostenuto la nostra vicenda d’oltremare.
Leggendo e conoscendo questi episodi mi sono sentita defraudata della conoscenza dei fatti di un periodo storico. La verità sul nostro periodo coloniale stenta ad apparire, mentre continua ad essere diffusa l’immagine di un colonialismo dal “volto umano” interessato alla valorizzazione delle terre e all’elevazione delle genti africane.
Invece quando nel 1943 finisce il periodo coloniale italiano in Libia, “l’eredità italiana è disastrosa: il 94% della popolazione è analfabeta, la mortalità infantile è al 40%, il reddito procapite non supera le 16 sterline all’anno, la struttura sociale è arretrata di trecento anni; solo 13 libici sono laureati, tra di loro non c’è nessun medico” (da “Libia” di Andrea Semplici).
Inoltre la Libia fu per l’Arma aeronautica italiana un campo sperimentale per l’impiego a scopo bellico di aeroplani e dirigibili e per l’impiego di gas mortali. Gli aerei avevano l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane: uomini, bestiame, coltivazioni e spesso le bombe erano cariche di iprite, gas mortale già allora al bando.
Ciò che rende atipica la vicenda coloniale italiana rispetto a quella delle altre potenze europee sono i miti che ha prodotto e soprattutto i silenzi e le rimozioni che l’hanno seguita fino ad anni recenti.
Solo nel 1998 l’Italia “ esprime rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione” e accetta le trentennali richieste libiche: aiuto ai tecnici libici per individuare i vecchi campi minati, risarcimento delle vittime saltate su quegli ordigni dimenticati e indagine sulla sorte dei deportati libici.
Ma ancora nulla di tutto ciò è stato fatto. Anche le recenti visite di Berlusconi in Libia non hanno concluso nulla.
Anzi in questi tempi si sta cercando di cancellare gli orrori compiuti in tempo fascista.
A Filettino, piccolo paese di montagna in provincia di Frosinone, paese di origine di Rodolfo Graziani, il sindaco, aiutato dalla Regione Lazio, sta pensando di dedicare un museo al sanguinario viceré che ha compiuto eccidi anche in Etiopia.
Accomiatandomi dai libici che mi avevano accompagnato nel deserto, ho esternato il rincrescimento per quanto accaduto. Penso che per stringere nuovi veri rapporti tra i due popoli, non solo il governo, ma anche i semplici cittadini, debbano riconoscere il male fatto quando se ne presenta l’opportunità.
Ho promesso che avrei diffuso la conoscenza di quanto realmente accaduto durante il periodo coloniale italiano in Libia e avrei agito, di conseguenza, come cittadina italiana che vuole pace e giustizia tra i popoli.

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