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San Romero d'America

Alberto Vitali, in un suo recente libro, ci racconta il santo dei poveri, la voce e il simbolo di una Chiesa che ha scelto di non tacere di fronte all’ingiustizia.
Alberto Conci

Sono passati oltre trent’anni da quel 24 marzo 1980 nel quale l’arcivescovo di San Salvador veniva assassinato con un colpo di fucile, mentre celebrava la messa nella cappella dell’hospitalito. L’eco di quella morte fu probabilmente molto più vasta di quanto avessero immaginato i suoi carnefici: perché Oscar Romero, divenuto troppo scomodo per l’aristocratico capitalismo feudale del più piccolo Paese dell’America centrale, non era solo la voce dei poveri, ma era ormai il simbolo di una Chiesa che aveva scelto di non tacere di fronte all’ingiustizia e al disprezzo quotidiano dei diritti fondamentali e della dignità umana. Le sue omelie domenicali, nelle quali la Parola di Dio si intrecciava con il dramma di un popolo oppresso da una minoranza dispotica e violenta, avevano scavalcato i confini del piccolo Salvador, ed erano divenute per molti ragione di speranza e fondamento di una prassi di giustizia. Così quella morte drammatica non colpiva solo il piccolo popolo salvadoregno, ma anche la grande comunità di coloro che avevano visto in Romero il segno concreto di una Chiesa capace, nella scia del profetismo più autentico, di denunciare l’ingiustizia che schiaccia i deboli e di richiamare alla conversione e all’impegno per cambiare le strutture di peccato.
Per questo, di fronte a quella morte non era e non è possibile rimanere indifferenti: Romero era pietra d’inciampo per alcuni e motivo di speranza per molti altri; e dopo il suo martirio non ha cessato di dividere coloro che ne hanno avvicinato la storia, proclamato “san Romero d’America” dal popolo che tanto aveva amato e figura pericolosa sul piano politico e teologico dai suoi detrattori.
Insomma, da qualsiasi prospettiva lo si osservi, Romero costringe sempre a prendere posizione e a interrogarsi sul proprio modo di concepire la fede e l’impegno nel mondo. E questo perché, come tutti i profeti, rompe tutti gli schemi, vivendo con una radicalità unica la doppia fedeltà a Dio e al mondo. In uno dei suoi testi più famosi, La fede dei profeti, scritto durante la seconda guerra mondiale, Martin Buber così descriveva il profeta: “Con il suo annuncio della parola egli pone di fronte alla decisione fra la via e le vie”. In questa alternativa secca fra la via e le vie sta tutta la radicalità dell’annuncio del profeta, che richiama il popolo ad abbandonare “le vie” per incamminarsi sull’unica “via”: la “via stretta” di cui parla Bonhoeffer, la via della grazia a caro prezzo, della sequela esigente del Vangelo, della ricerca della giustizia e del bene, in breve la via del regno.

Pastore di agnelli
In questo quadro, il libro di Alberto Vitali (Oscar A. Romero, Pastore di agnelli e lupi, San Paolo) sull’arcivescovo di San Salvador rappresenta un punto di non ritorno. Non solo perché ne avvicina la vicenda mettendo in luce tratti della sua esistenza sconosciuti al pubblico italiano; ma soprattutto perché ci restituisce l’immagine di un pastore la cui vita è così profondamente intrecciata con quella del popolo da renderne incomprensibili le scelte se non si tiene conto di coloro, soprattutto i poveri, che con lui hanno vissuto alcune fra le pagine più drammatiche della storia recente.
La ricostruzione così ricca di quell’intreccio è stata possibile perché Vitali ha incontrato molti di coloro che lo hanno conosciuto, dalla gente semplice del popolo a coloro che hanno condiviso con lui l’impegno pastorale e quello sociale, fino ai protagonisti delle istituzioni ecclesiali e politiche, riconoscendo così l’importanza fondamentale della testimonianza e della narrazione.
Raccontare Romero prendendo le mosse da questo profondo, inestricabile legame con il suo popolo non è così scontato come può sembrare di primo acchito. Non si deve dimenticare che l’enorme rilevanza mondiale assunta da Romero negli ultimi tre anni della sua vita ha spesso costretto il vescovo salvadoregno all’interno di schemi che non gli appartenevano, interpretandolo attraverso chiavi di lettura teologiche o ideologiche riduttive quando non totalmente inadeguate. Lo schematismo della guerra fredda, le cui conseguenze furono drammatiche nel Centroamerica, può spiegare il contesto politico in cui Romero operò, aiutandoci a comprendere le origini di tanta efferatezza e ad avvicinarci alle dimensioni del dramma di un popolo calpestato per decenni da una classe dirigente criminale, ma non basta per dare ragione del grido di Romero, del suo appello alla conversione dei militari il giorno prima di essere ucciso, della sua denuncia di ogni forma di violenza, dietro la quale egli riconosce la negazione del progetto di Dio sull’umanità. La schematizzazione impedì allora – anche all’interno della Chiesa, che non lo comprese – e forse impedisce ancora oggi a molti di capire pienamente la figura di Romero, che sfugge, come tutti i profeti, ad ogni catalogazione frettolosa.
Ciò che, invece, non va perso di vista è il fatto che la rilevanza politica del messaggio di Romero affonda le radici nella sua profonda spiritualità e nella sua preoccupazione di essere fedele testimone della Parola. Una Parola che monsignore sente risuonare potentemente nel popolo al quale appartiene. Nelle conclusioni, don Angelo Casati riprende un passaggio del libro nel quale Vitali ricorda la reazione di Romero di fronte al commento della scrittura da parte di un giovane: “Avevo portato una lunga omelia preparata per questa occasione, ma non la utilizzerò. Dopo avervi ascoltato mi viene solo da ripetere ciò che Gesù disse: ‘Grazie padre perché hai rivelato la verità ai semplici e l’hai nascosta ai dotti’. Più tardi, sulla via del ritorno, confidò al sacerdote che l’accompagnava: ‘Figuratevi, padre, che io avevo delle riserve su questi contadini; ma vedo che loro commentano meglio di noi la parola di Dio: la colgono nel segno!”. E questo è appunto il nocciolo: cogliere nel segno la Parola, nella convinzione che la Parola è il riferimento costante per il credente e che essa fornisce le coordinate per operare la giustizia.

Poveri senza voce
In questa prospettiva i volti del popolo assumono un ruolo determinante, al punto che non è azzardato parlare di una teologia del volto del vescovo di San Salvador. Perché i volti dei “poveri senza voce” – come li definì Romero nella lettera di protesta che indirizzò al presidente Molina per il massacro di Tres Calles – sui quali sono scolpiti “il dolore, il terrore e l’indignazione”, come i volti sfigurati delle vittime della violenza, rappresentano per monsignore il segno più evidente di un’ingiustizia scandalosa e inaccettabile.
È dall’incontro con quei volti che nascono le omelie, in cui la denuncia dei soprusi e degli assassini è così circostanziata da non lasciare vie di scampo ai responsabili: rileggendole, sottolinea Vitali, “non stupisce tanto che l’abbiano ucciso… quanto piuttosto che abbiano aspettato tre anni per farlo!”.
Difficile racchiudere in una parola o in una frase soltanto l’eredità di Romero: il suo profetico richiamo alla conversione, la sua limpida denuncia del male, la sua rettitudine, la sua fiducia nella capacità umana di scegliere il bene, la sua fede, la sua convinzione che la Chiesa debba essere parte nella trasformazione del mondo sulla via del regno, ne fanno una figura che rimane ancora, come accade per i profeti e i martiri, enormemente davanti a noi. Ma una cosa è certa: che la sua eredità ha a che fare con quei volti. I volti, ricorda Vitali, di “un popolo di poveri che da più di trent’anni trova nelle sue parole l’ispirazione necessaria per continuare a resistere nella dura lotta della sopravvivenza[…]. Un popolo che trova incoraggiamento nella lotta incompiuta per la giustizia e nella difesa della memoria perché il futuro sia davvero di ‘pace con dignità’ per tutti. Un popolo che trova, insomma, nelle sue parole una possibilità di riscatto e di vita. La sola vera gloria che possa interessare al loro pastore”.

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