Per amore della Pachamama
In attesa del Vertice Rio+20.
Incontriamo a Quito Alberto Acosta, economista della FLACSO, ispiratore delle Campagne sulla cancellazione del debito estero e grande studioso dei temi del debito ecologico e dei diritti della madre terra, nonché già Presidente dell’Assemblea Costituente dell’Ecuador. Per anni ha collaborato con la Fondazione Friedrich Ebert. A lui chiediamo di spiegarci il concetto di debito ecologico, le sue ricadute operative, e come il tema del debito ecologico si inserisca in un percorso critico nei confronti del concetto di sviluppo sostenibile. Un tema attuale, visto il prossimo Vertice ONU Rio+20, che si terrà nella metropoli brasiliana nel giugno di quest’anno, a suggellare i venti anni passati dalla conferenza su Sviluppo e Ambiente UNCED.
Come si può definire il concetto di debito ecologico? Come si possono delineare le implicazioni concrete, in termini di politiche locali, globali e nazionali che facciano perno su tale principio e sulla restituzione del debito?
Per debito ecologico si intende l’insieme di obblighi che alcuni Paesi hanno nei confronti di altri a seguito di azioni che causano danni ambientali e come conseguenza di una relazione di dominio a livello internazionale. In questa prospettiva, alcuni Paesi hanno una responsabilità storica di cui farsi carico dal punto di vista culturale, ambientale e sociale. Questo concetto apre la porta a una diversa lettura delle relazioni internazionali, caratterizzate finora solo dal debito finanziario, e fondate sul fatto che esistano Paesi con denaro e Paesi senza denaro, che hanno un problema di debito. A noi interessa chi deve a chi e perché. Esistono tipi di debito ecologico conseguenti alle emissioni di gas serra da parte dei Paesi ricchi, che approfittano della capacità di assorbimento di quei gas da parte di Paesi già impoveriti dal modello dominante di sviluppo. Oppure lo sfruttamento e l’esportazione di risorse naturali senza assumersi i costi socio-ambientali correlati. Se esporti banane, il mercato non riconosce i costi derivanti dall’uso dei pesticidi, che provocano malattie ai lavoratori, né l’impatto delle piantagioni monoculturali, o l’esaurimento di sostanze nutritive del terreno. Si configura, insomma, uno scambio diseguale non solo da un punto di vista commerciale ed economico, ma anche ecologico. Egualmente, i Paesi esportatori, obbligati a pagare il debito estero, lo fanno accumulando debito ecologico, generato dall’esportazione di materie prime. Esistono, quindi, distinte fattispecie di debito ecologico, che permettono di stabilire relazioni “decolonizzate” tra Paesi e popoli. Non basterà più dire, ad esempio, che i Paesi ricchi con disponibilità di denaro si impegneranno a stanziare risorse finanziarie per sostenere programmi di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici ad esempio. Si dovrà incorporare il criterio della loro responsabilità. Se parliamo di uno scambio ecologicamente diseguale, il tema del debito ecologico andrà internalizzato anche nei negoziati commerciali. Come valutiamo il costo ambientale e sociale di una merce, anche in termini di contenuti di acqua o CO2?
Come si inserisce, nel tema del debito ecologico, la questione del riconoscimento dei diritti della natura, della Madre Terra, che ha fatto breccia non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche in Costituzioni come quella del tuo Paese, e quella boliviana?
Quando parliamo di debito ecologico parliamo anche di un debito accumulato verso la natura, la Pachamama. Così, ci sono anche Paesi poveri che stanno generando debito ecologico, o sono complici della domanda di materie prime dei Paesi ricchi. In sostanza, però, i grandi debitori sono i Paesi creditori che, in virtù dei loro crediti finanziari, hanno imposto condizioni capestro ai Paesi poveri che causano direttamente debito ecologico. Questo ci apre scenari ancor più interessanti: i Paesi debitori del debito finanziario possono assumere una posizione più degna e meno subalterna nei negoziati internazionali. Un Paese che ha un debito finanziario può esigere il pagamento del debito ecologico. Ad esempio, nel caso di ITT Yasuni (progetto del governo ecuadoriano di mantenere ingenti quantità di petrolio sottoterra in una zona di grande biodiversità abitata da popoli indigeni non contattati, in cambio di fondi internazionali, NdA), si tratta di una corresponsabilità di Paesi ricchi e Paesi indebitati, eguale e differenziata nel proteggere il pianeta. Il debito ecologico è un concetto molto potente e per questo molti non lo appoggiano, perché temono che questo crei un precedente rischioso.
Come si può restituire il debito ecologico e non cadere nella trappola secondo la quale il debito ecologico si può ripagare con risorse finanziarie, attribuendo un valore di mercato alla natura?
È un gran rischio credere che il debito ecologico si possa cancellare con il denaro. È il caso del Fondo Verde per il Clima lanciato alla Conferenza sul Clima dello scorso anno a Durban, che parrebbe essere uno strumento per ripagare debito ecologico, anche se i promotori si guardano bene dal riconoscerlo apertamente, o d’inquadrare le funzioni del Fondo nel concetto di restituzione. La vera sfida è quella di assumersi responsabilità storiche. Nel caso dell’Ecuador, non è solo quello di proteggere l’ITT Yasuni , ma anche di prevenire l’espansione della frontiera petrolifera all’interno della foresta amazzonica a Sud.
Come spieghi la contraddizione tra la necessità di pagare il debito sociale per le generazioni attuali e il conseguente accumulo di debito ecologico per le generazioni a venire che permea molte delle esperienze di governi di sinistra in America Latina?
Apparentemente questa è una situazione senz’alternativa. I popoli dell’America Latina aspettano da tempo immemorabile che si paghi il debito sociale. Ci dobbiamo allora chiedere quali siano le cause che lo impediscono, le ragioni strutturali di un sistema di sfruttamento, di negazione di diritti. Invece, ci si limita ad addurre il pagamento del debito sociale e la riduzione della povertà come pretesto per giustificare l’ampliamento della frontiera estrattiva. Quasi sempre, però, è questa logica estrattiva che alimenta la povertà. Insomma, ci troviamo di fronte a una perversione, a un ossimoro. Inoltre, le economie estrattiviste sviluppano patologie economiche, sociali e politiche. Si vive della rendita della natura e si dipende dalla domanda dei Paesi ricchi e del capitale, e della nostra capacità di sfruttare la Madre Terra e la manodopera. Ecco un altro aspetto del debito ecologico. A livello sociale, vi sono società nelle quali i progetti di lotta alla povertà finanziati sfruttando la natura, alimentano politiche clientelari e populiste. A livello politico, governi a differente tasso di autoritarismo: basta dare un’occhiata ai Paesi maggiormente produttori di petrolio nel mondo.
Concetti come debito ecologico e diritti della Madre Terra sono ormai molto diffusi a vari livelli, un po’ come successe venti anni fa con lo sviluppo sostenibile. Un termine da allora usato e abusato al punto da trasformarsi in tutto e il contrario di tutto. Come evitare che questo succeda anche con il debito ecologico?
Questi processi hanno a che vedere con i conflitti e le lotte per l’affermazione dei diritti, e non solo con il loro riconoscimento formale in una costituzione e in leggi adeguate. Questo noi lo abbiamo fatto all’Assemblea Costituente di Montecristi, frutto di processi collettivi, di popolo. I diritti della natura sono stati inseriti nella Costituzione dell’Ecuador, anche grazie al supporto di Eduardo Galeano, che riuscì a motivare altri congressisti che fino ad allora non erano interessati al tema.
E poi, ci sono alcune amministrazioni locali statunitensi che li riconoscono nei loro statuti e nelle loro normative. Io provengo da una riflessione sul tema della Pachamama, anche se, secondo la cosmovisione indigena, in realtà non esiste una tal cosa quale i diritti della natura. Tutti noi esseri umani siamo all’interno di un processo di emancipazione, di umanità, e, quando parliamo di Buen Vivir o Sumnak Kawsay, non parliamo di modello alternativo di sviluppo, ma alternativa allo sviluppo. E su questo articoliamo alcuni concetti. E non siamo i soli.